SPECIALE 70ma #BERLINALE #9 – 20.02/01.03/2020 – (DAY 6): The Woman Who Ran di Hong Sangsoo e il suo Mondo al Femminile

Un racconto al femminile, anzi un dialogo al femminile che ancora una volta gli uomini poco comprendono.

(da Berlino Luigi Noera con la gentile collaborazione di Marina Pavido – Le foto sono pubblicate per gentile concessione della Berlinale)

In una Seoul estremamente tranquilla, dai ritmi di vita calmi e contemplativi, assistiamo alle vicende della giovane Gamhee, la quale, approfittando, appunto, della lontananza del marito, va a trovare due sue vecchie amiche che abitano in periferia, per poi incontrarne una terza, che non vede da molti anni, nel bar di un piccolo cinema.

Un racconto tutto al femminile, questo di Hong Sangsoo. Tre brevi capitoli, per altrettante conversazioni che procedono tutte secondo uno schema prestabilito, durante le quali le figure maschili sembrano quasi fare da disturbatrici, interrompendo per un attimo la quiete delle protagoniste. Ma si tratta realmente di quiete? Oppure qualcuna di loro desidera, in realtà, fuggire lontano alla ricerca di sé stessa e di una nuova, ritrovata indipendenza (come, d’altronde, lo stesso titolo sta a suggerire)? In confronto a tutti i personaggi femminili qui rappresentati, la giovane Gamhee sembrerebbe proprio colei che ancora deve trovare un proprio equilibrio, ancora sofferente per le sue esperienze passate e adagiata all’interno di un matrimonio che – malgrado ciò che la stessa può affermare – non le permette di mantenere una propria autonomia e di ritagliarsi dei momenti per sé.

Ciò che Hong Sangsoo ha qui messo in scena è, dunque, una sorta di viaggio interiore verso una nuova consapevolezza e maturità e all’interno del quale è anche il cinema stesso a svolgere un ruolo principale. Perfettamente in linea con la sua poetica (qui, in realtà, più minimalista che mai) il regista ha sapientemente lavorato di sottrazione nel mettere in scena i tormenti interiori della giovane protagonista. Tormenti che, di fatto, restano sullo schermo sempre impliciti, e che stridono con la calma esteriore delle situazioni di volta in volta messe in scena. Tutto è calmo, contemplativo, in The Woman who ran. Persino le piccole beghe con i vicini di casa a causa di “visite indesiderate” da parte di alcuni gatti randagi. Tutto scorre sereno e tranquillo, per una serie di lunghe conversazioni dall’impronta fortemente rohmeriana, piani sequenza e zoom tipici della poetica del regista di Seoul.

Nulla toglie e nulla aggiunge, Hong Sangsoo, alla sua vasta produzione, in The Woman who ran. Egli, al contrario, gioca con stili e tematiche più e più volte sperimentate, quali, ad esempio, il tema del viaggio (inteso in ogni sua possibile accezione) e storie di protagoniste femminili alla ricerca di sé, che, trovandosi in luoghi caldi e accoglienti, sembrano trovare finalmente risposte ai loro mille quesiti. O forse no? Sono molti gli interrogativi che il regista ha lasciato volutamente in sospeso. Così come parecchi sono gli spunti di riflessione che un lungometraggio come il presente offre.

Eppure, pur trattandosi, questo The Woman who ran, quasi di un’opera minore, senza particolari picchi o guizzi narrativi e stilistici, indubbiamente si classifica come un lavoro pieno di grazia e di eleganza, perfettamente in linea con la cinematografia del regista. E che, in seguito alla sua visione, è in grado di scaldare il cuore degli spettatori e di regalare uno straordinario senso di pace e di tranquillità. Ma questo, si sa, nel cinema di Hong Sangsoo è ormai quasi una garanzia.

Marina Pavido

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