SPECIALE 70ma #BERLINALE #10 – 20.02/01.03/2020 – (DAY 7): Burhad Qurbani non riesce a emulare Fassbinder

(da Berlino Luigi Noera con la gentile collaborazione di Marina Pavido – Le foto sono pubblicate per gentile concessione della Berlinale)

Berlin Alexanderplatz è l’ultimo lavoro del regista di origini afghane, ma tedesco d’adozione Burhad Qurbani.

Francis è un giovane rifugiato proveniente dall’Africa, che giunge a Berlino e tenta di rifarsi una vita, lavorando dapprima in una fabbrica, poi, in seguito a una lite con il suo datore di lavoro, per conto del losco Reinhold.

Suddiviso in cinque capitoli, questo lavoro di Qurbani mette in scena l’ascesa e la caduta – con epilogo a sorpresa – di un giovane come tanti, che, di fianco ai tentativi di rigare dritto e di trovare un proprio equilibrio e una propria felicità accanto alla donna che ama, fatica non poco a tenersi lontano da giri pericolosi.

Se, dunque, il regista, negli anni scorsi, aveva avuto modo di farsi conoscere e apprezzare al di fuori dei confini nazionali con il lungometraggio Wir sind jung. Wir sind stark (2014), con il presente Berlin Alexanderplatz, purtroppo – spiace dirlo – è andato totalmente fuori strada. Al di là, infatti, della scarsa originalità del tema trattato e della banalità della storia messa in scena, per determinate scelte stilistiche e registiche questo suo ultimo lavoro fa praticamente acqua da tutte le parti.

Nel rappresentare una Berlino ai più sconosciuta e determinati ambienti legati alla malavita, Qurbani ha voluto, al contempo, conferire al tutto – e, in particolare, alle vicende del giovane Francis – una che di simbolico e spirituale. Al via, dunque, intermezzi che vedono il giovane fronteggiare un toro al ralenty (simbolo del lato più aggressivo del suo stesso carattere) o flashback che ci mostrano il ragazzo in mare, nel disperato tentativo di salvare i suoi cari. Di contorno – e perennemente presente durante tutto il film – una musica di sottofondo che – insieme a una voice over che fa capolino di quando in quando – altro non fa che accentuare la retorica dell’intero lavoro che, nel complesso, sembrerebbe quasi ricordarci un Barry Jenkins nella sua forma peggiore.

Discorso a parte, inoltre, va fatto per quanto riguarda la sceneggiatura e, nello specifico, proprio l’epilogo. Volendo sorvolare su una messa in scena posticcia e pacchiana che ci mostra il protagonista tra le braccia della sua amata rappresentato a mo’ di Pietà di Michelangelo (quante volte abbiamo visto la stessa immagine?), v’è qui un particolare risvolto che stride totalmente con le precedenti tempistiche, frutto di un chiaro errore di distrazione che ci dà quasi l’impressione di un lavoro frettoloso e che punta a essere a tutti i costi buonista.

Nulla – ma proprio nulla – a che vedere, dunque, con il precedente lavoro di Fassbinder. Almeno, però, sapendo che il film è in corsa per l’Orso d’Oro, ci si sarebbe aspettati una cura e una qualità decisamente migliori. Purtroppo, però, con questo suo Berlin Alexanderplatz, Burhad Qurbani ha fatto un vero e proprio buco nell’acqua.

Marina Pavido

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