#VENEZIA79 – 31/8 -10/9/2022 SPECIALE #12: (DAY 8)

(da Venezia Luigi Noera con la gentile collaborazione di Maria Vittoria Battaglia, Vittorio De Agrò e Anna Maria Stramondo – Le foto sono pubblicate per gentile concessione della Biennale)

Zeller posegue  la sua trilogia sulla famiglia con uno strepitoso Anthony Hopkins

VENEZIA 79 Concorso

THE SON di FLORIAN ZELLER con Hugh Jackman, Laura Dern, Vanessa Kirby, Zen McGrath, Anthony Hopkins, Hugh Quarshie / UK / 123’

SINOSSI

Un dramma che segue una famiglia che lotta per tornare unita dopo essersi sfasciata. The Son è incentrato su Peter, la cui vita frenetica con il figlio appena nato e la nuova compagna Beth viene sconvolta quando l’ex moglie Kate ricompare con il figlio Nicholas, ormai adolescente. Il giovane manca da scuola da mesi ed è tormentato, distante e arrabbiato. Peter si sforza di prendersi cura di Nicholas come avrebbe voluto che suo padre si fosse preso cura di lui, mentre si destreggia tra il lavoro, il nuovo figlio avuto da Beth e l’offerta della posizione dei suoi sogni a Washington. Tuttavia, cercando di rimediare agli errori del passato, perde di vista il modo in cui tenersi stretto Nicholas nel presente.

COMMENTO DEL REGISTA

“The Son è un film sul senso di colpa, sui legami familiari e, in ultima analisi, sull’amore. Volevo realizzarlo da diversi anni. Ero così determinato a raccontare questa storia che non avrei potuto raccontarne nessun’altra, né da un diverso punto di vista. È in parte ispirato a emozioni che conosco personalmente. Volevo condividerle con il pubblico perché so che molte persone si confrontano con i disturbi mentali e che la vergogna e lo stigma associati a questi problemi possono ostacolare conversazioni necessarie e talvolta vitali.”

RECENSIONE

Nicholas è un adolescente che come tanti altri è figlio di genitori separati. Il padre è un uomo in carriera abituato a risolvere i problemi aziendali si è rifatta una vita con una giovane compagna dalla quale ha avuto da poco un figlio. Anche l’ex moglie, con la quale vive Nicholas è una donna in carriera. Come tanti adolescenti Nicholas vive il momento dell’adolescenza con difficoltà soprattutto per la separazione dei genitori.

Nicholas decide di andare a vivere con il padre cambiando scuola. Di questo la madre se ne fa un cruccio ricordando i tempi quando erano una famiglia felice (?)

Il film ruota tutto su Peter, padre affermato, padre amorevole, marito amorevole sebbene il titolo del film sia tutt’altro (the son).

Quando tutto sembra andare per il meglio irrompe un fatto inaspettato: la compagna di Peter trova un coltello sotto il materasso di Nicholas con il quale quest’ultimo si autolesiona.

Drammatico confronto tra padre e figlio sulla scoperta con il dubbio che qualcosa di tremendo sia successo nella vecchia scuola.

Tutto ciò rafforza di più il rancore di Nicholas per la separazione dei genitori e per il fratellastro a cui sono rivolte le attenzioni.

La storia viene drammatizzata con il tentato suicidio e ricovero in una clinica psichiatrica.

Anthony Hopinks offre un bel cameo nella figura dell’aziano padre di Peter che non ha risolto il loro rapporto conflittuale maturato nell’adolescenza.

Tanti sono i temi trattati in questo film che fa parte della trilogia del regista sulla famiglia. Se nel precedente si analizzava la decadenza psicofisica di un anziano padre (interpretato dal sempre verde Anthony Hopinks) adesso gli argomenti trattati sono troppi e ne fa le spese il film il cui epilogo è dranmmatico.

Peter e l’ex moglie dovrebbero prendere una decisione dolorosa che è per il bene del figlio Nicholas, ma non lo fanno preferendo un loro effimero benessere.

Questo non è un film che giudica i genitori fallibili che stanno facendo del loro meglio in una situazione impossibile. Tuttavia, il padre di Peter (Anthony Hopkins in una forma vulcanicamente tossica) è raffigurato come un padre irrimediabilmente cattivo, la cui negligenza potrebbe aver seminato il seme per il malessere di suo nipote. Nel frattempo, Peter ripete ossessivamente i ricordi di tempi più felici, come se da qualche parte sepolta nel profondo della gioia semplice di una vacanza in famiglia nel Mediterraneo un decennio prima si trovasse la chiave di ciò che è andato storto.

Il film è dedicato a GABRIELE (Florian Zeller)

La cosa interessante del film è il modo in cui cattura la  inquietante depressione, il modo in cui le persone si sentono a disagio in presenza di Nicholas. Gli spettri  degli adolescenti psicopatici del cinema incombono. E Zeller semina il film con accenni al fatto che Nicholas potrebbe non essere degno di fiducia: un paio di orecchini mancanti assume un significato schiacciante.

ORIZZONTI

JANG-E JAHANI SEVOM (WORLD WAR III) di HOUMAN SEYIEDI con Mohsen Tanabandeh, Neda Jebreili, Mahsa Hejazi, Navid Nosrati/ Iran / 117’

SINOSSI

Shakib è un lavoratore a giornata senza fissa dimora che non si è mai ripreso dalla perdita della moglie e del figlio in un terremoto avvenuto anni prima. Negli ultimi due anni ha iniziato una relazione con una donna sordomuta, Ladan. Il cantiere in cui lavora oggi si rivela essere il set di un film sulle atrocità commesse da Hitler durante la Seconda guerra mondiale. Contro ogni previsione, gli viene dato un ruolo nel film, una casa e la possibilità di diventare qualcuno. Quando Ladan lo viene a sapere, si presenta sul posto di lavoro implorando aiuto. Il piano di Shakib per nasconderla va tragicamente a monte e minaccia di rovinare il suo nuovo status e quella che sembrava essere l’opportunità di tutta una vita.

COMMENTO DEL REGISTA

“Hannah Arendt una volta disse che nelle dittature tutto va bene fino a quindici minuti prima del crollo totale. Le società governate da tali regimi totalitari sono le più efficaci fucine di anarchici. Mi sono sempre chiesto per quanto tempo ancora la tirannia e l’oppressione potranno dominare il mondo e chi sono le persone che saranno schiacciate dai potenti governanti di queste società afflitte. Persone che lotteranno con le unghie e con i denti per soddisfare i propri bisogni più elementari: una casa, un lavoro e una famiglia. E tutto ciò che finiscono per ottenere non è altro che una facciata, decorativa e artificiale. Ci sarà sempre chi ha il potere di dare e chi è abbastanza disperato da ricevere. E questo circolo vizioso continuerà fino a quindici minuti prima del collasso totale: per riprendere subito dopo…”

RECENSIONE

Un film nel film. Un reietto si trova ad interpretare un reietto. Mai dimenticare la Storia passata per non ripeterla (possibilmente).

Questa è la chiave di un film fuori del comune sull’olocausto che prende a prestito anche situazioni comiche dal capolavoro di Chaplin IL DITTATORE. Qualcuno deve sostituire l’interprete di Hitler, peccato che i più non sappiano chi sia stato l’autore del male assoluto del secolo scorso.

Con l’urgenza di un buon thriller e la chiarezza di una favola, World War III è il racconto estenuante ma avvincente di come una delle vittime della vita impara a imitare i suoi oppressori. In gran parte srotolato sul set di un brutto film sull’Olocausto che inizia come una commedia nera prima di addentrarsi ulteriormente nella tragedia, un viaggio incarnato in una coinvolgente e straordinaria interpretazione centrale dell’eroe oppresso.

Il protagonista Shakib trova lavoro come costruttore sul set infernale fangoso e sgangherato di quello che sembra il peggior film sull’Olocausto mai realizzato.

In effetti, a Shakib viene chiesto di costruire un campo di concentramento. Arruolato come comparsa sul set insieme a tanti altri poveri analfabeti, Shakib si ritrova, tra le altre umiliazioni, a essere spinto in una camera a gas: le comparse non sono state avvertite di quanto sta accadendo, e scoppia il panico.

Tutto ciò che viene dopo – e ce n’è molto, in parte sorprendente visivamente ed emotivamente – deriva da questa decisione, pericolosa in una società che sembra non avere spazio per l’altruismo.

L’epigrafe del film è di Mark Twain: “La storia non si ripete mai, ma spesso fa rima”.

In uno di quei fugaci momenti di dialogo rivelatore in cui eccelle la Terza Guerra Mondiale, il regista chiede a Shakib se conosce chi era Hitler: la sua risposta è no. Chiunque non sappia chi fosse Hitler, suggerisce questo film inquietante, è capace di diventare lui stesso Hitler.

FUORI CONCORSO – FICTION

DREAMIN’ WILD di BILL POHLAD con Casey Affleck, Noah Jupe, Zooey Deschanel, Chris Messina, Jack Dylan Grazer, Walton Goggins, Beau Bridges / USA / 110’

SINOSSI

Cosa succederebbe se un sogno d’infanzia si avverasse all’improvviso – ma trent’anni più tardi? È quanto accade al cantautore Donnie Emerson. Il sogno di avere successo si realizza improvvisamente – e inaspettatamente – quando si sta avvicinando ai cinquant’anni. E se ciò da un lato porta con sé la speranza di seconde occasioni, dall’altro lato evoca anche i fantasmi del passato frammisti a emozioni a lungo sepolte, mentre Donnie, il fratello Joe e l’intera famiglia si ritrovano a fare i conti con la fama recentemente conquistata. Dreamin’ Wild è un’incredibile storia vera di amore, speranza, famiglia, senso di colpa e responsabilità.

COMMENTO DEL REGISTA

“La storia di Donnie Emerson intreccia amore, lealtà, seconde occasioni e la possibilità di vedere i propri sogni avverarsi. Al contempo è anche una storia di dolore, di rimpianto e delle complicazioni che i sogni possono portare con sé. Dreamin’ Wild possiede una tranquilla semplicità. Esplora la fede e la famiglia, il senso di colpa e la responsabilità. In definitiva, parla di guarigione: ed è ciò di cui oggi abbiamo più che mai bisogno nel mondo. Ecco perché sono stato attratto da questa storia. Il nucleo centrale del film è la musica: Baby girava nella mia testa mentre scrivevo, e l’anima e la passione di questa canzone permeano il film. Vi è un senso di magia che attraversa questa storia. Lo si può sentire riecheggiare in Baby. E lo percepirete in Dreamin’ Wild.”

RECENSIONE

La storia di vita reale di Donnie e Joe Emerson figli di agricoltori che negli anni ’70 provarono asfondare nel campo musicale senza riuscirci nonostante i notevoli sforzi dei genitori.

È una di quelle storie vere che urlano solo “diritti cinematografici!”. Nel 1979, due fratelli adolescenti di un villaggio rurale nello stato di Washington registrarono un album intitolato “Dreamin’ Wild” in uno studio che il padre aveva costruito per loro nella fattoria di famiglia. Fu un vero e proprio flop; non riuscirono nemmeno dare via le copie del disco che avevano prodotto. Mentre il padre fu costretto a vendere la maggior parte dei terreni di proprietà per restituire il prestito.

Ci ritroviamo trent’anni dopo nel 2008, quando un collezionista di dischi scommette su un LP che trova da un rigattiere. È “Dreamin’ Wild”. Nel 2012, il disco viene ripubblicato, il suo brano di spicco, “Baby”, inizia a essere trasmesso seriamente e il New York Times invia un giornalista nel villaggio di Fruitland per coprire la storia.

Dreamin ‘Wild vuole essere un viaggio più spigoloso, offrendo allo stesso tempo una commovente storia di redenzione rock. C’è così tanto materiale drammatico con cui lavorare qui, e un cast solido dominato dall’intensa interpretazione di Casey Affleck che interpreta Donnie Emerson, il più dotato musicalmente di quei due fratelli.

Il Donnie di Affleck è un quasi cinquantenne in conflitto che è profondamente scettico sull’improvvisa riscoperta da parte del mondo di un sé diciassettenne da cui è passato. Niente in Dreamin ‘Wild è così autenticamente coinvolgente come la vera storia raccontata da Steven Kurutz nell’articolo “Fruitland”. Certo, l’evidente rispetto di Pohlad per la vera famiglia Emerson al centro del racconto è da ammirare.

Pervadendo il film, la musica dell’album originale “Dreamin Wild” contribuisce a sembrare provenire da un luogo fuori dal tempo; universo musicale parallelo staccato da quello del 1979 che era immerso nel post-punk e nella discomusic.

Ma i veri protagonisti di questa commovente storia sono le immagini dell’amore familiare

Luigi Noera

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