#VENEZIA79 – 31/8 -10/9/2022 SPECIALE #4: (DAYS 2 – 4)

(da Venezia Luigi Noera con la gentile collaborazione di Maria Vittoria Battaglia, Vittorio De Agrò e Anna Maria Stramondo – Le foto sono pubblicate per gentile concessione della Biennale)

Le prime tre giornate decretano il successo di LUCA GUADAGNINO con una iconografia trash dagli STATES (RECENSIONE)

Sebbene non siamo presenti a Venezia in questi primi giorni, abbiamo recuperato alcuni film e ve ne parliamo.

VENEZIA 79 Concorso

ALL THE BEAUTY AND THE BLOODSHED di LAURA POITRAS USA / 113’

SINOSSI

All the Beauty and the Bloodshed è la storia epica ed emozionante dell’artista e attivista di fama internazionale Nan Goldin, raccontata attraverso diapositive, dialoghi intimi, fotografie rivoluzionarie e rari filmati, della sua battaglia per ottenere il riconoscimento della responsabilità della famiglia Sackler per le morti di overdose da farmaco. Il film intreccia il passato e il presente di Goldin, l’aspetto profondamente personale e quello politico, dalle azioni del P.A.I.N. presso rinomate istituzioni artistiche alle immagini di amici e colleghi catturate da Goldin, passando per la devastante Ballad of Sexual Dependency e la leggendaria mostra sull’AIDS Witnesses: Against Our Vanishing del 1989, censurata dal National Endowment for the Arts.

La storia inizia con P.A.I.N., un gruppo da lei fondato per indurre i musei a rifiutare i fondi Sackler, togliere lo stigma alla dipendenza e promuovere strategie di riduzione del danno. Ispirato da Act Up, il gruppo ha orchestrato una serie di proteste atte a denunciare i Sackler e i crimini della Purdue Pharma, produttrice dell’ossicodone. Al centro del film campeggiano le opere d’arte di Goldin The Ballad of Sexual Dependency, The Other Side, Sisters, Saints and Sibyls e Memory Lost. In queste opere, Goldin ritrae gli amici rappresentandoli con bellezza e cruda tenerezza.

Queste amicizie e l’eredità della sorella Barbara sono alla base di tutta l’arte di Nan Goldin.

COMMENTO DELLA REGISTA

“Ho iniziato a lavorare a questo film con Nan nel 2019, due anni dopo che aveva deciso di sfruttare la sua influenza come artista per denunciare la responsabilità penale della ricchissima famiglia Sackler nell’alimentare la crisi da overdose. Il processo di realizzazione di questo film è stato profondamente intimo. Nan e io ci incontravamo a casa sua nei fine settimana e parlavamo. All’inizio sono stata attratta dalla storia terrificante di una famiglia miliardaria che ha consapevolmente creato un’epidemia e ha successivamente versato denaro ai musei, ottenendo in cambio detrazioni fiscali e la possibilità di dare il proprio nome a qualche galleria. Ma mentre parlavamo, ho capito che questa era solo una parte della storia che volevo raccontare, e che il nucleo del film è costituito dall’arte, dalla fotografia di Nan e dall’eredità dei suoi amici e della sorella Barbara. Un’eredità di persone in fuga dall’America.”

RECENSIONE

Il documentario sull’attivista Nan Goldin contro la famiglia Sackler molto atteso per il suo impegno politico non ha faticato a farsi apprezzare dal pubblico del Lido che lo ha accolto con grande entusiasmo. Ci immaginiamo che la cosa è stata gradita dalla Presidente statunitense della Giuria Julianne Moore.

C’è un però relativo a cosa racconta nel profondo la regista la quale ha mescolato in un tutto uno la storia personale dell’attivista e i suoi risvolti per smascherare una potente lobby farmaceutica con tante proteste eclatanti nei più importanti musei americani finanziati dalla famiglia Sackler. Infatti lo spirito filantropico era volto a coprire e far dimenticare i disastri procurati a tante persone colpite dalla dipendenza dei farmaci prodotti dalla Sackler, grande dinastia farmaceutica miliardaria con una fortuna guadagnata da OxyContin, la causa della crisi degli oppioidi.

Argomento politicamente corretto che approfitta di ciò per sbilanciare il racconto verso quella personale che è altrettanto politicamente corretta. Questo è chiaramente un punto di vista rispettabile ma che fa parte dell’altrettanto lobby dei diritti sessuali a tutti i costi. Dopo una premessa sulle lotte dell’attivista il film si concentra appunto sulla storia personale e diventa noioso ed ossessivo. Cosicché lo spettatore subisce la fotografa Nan Goldin  che è sempre stata una forza dirompente e intransigente sulla scena artistica americana. Attiva dalla metà degli anni ’70 in poi, ha puntato l’obiettivo sulla propria vita e sulla sua cerchia di compagni outsider e rinnegati culturali e trovandosi nella comoda posizione di essere abbracciata dall’establishment artistico, usa il privilegio del suo profilo per andare in guerra contro le stesse istituzioni che la celebrano.

L’approccio di Poitras per catturare lo spirito dell’arte di Goldin combina l’uso estensivo delle sue presentazioni di diapositive con filmati d’archivio vibranti ed esaurientemente ricercati che come detto sviano dall’argomento alla base del documentario e lo rendono appunto noioso ed ossessivo.

ORIZZONTI

ARU OTOKO (A MAN) di KEI ISHIKAWA

SINOSSI

Dopo il divorzio, Rie ha trovato la felicità con il suo secondo marito Daisuke, con cui ha formato una nuova famiglia. Ma quando Daisuke muore in un tragico incidente, Rie scopre che lui non era l’uomo che pensava fosse. Rie chiama l’avvocato Kido perché la aiuti a scoprire la verità sull’identità dell’uomo che amava. La ricerca aprirà interrogativi ancora più grandi sulla natura stessa dell’identità e su cosa renda una persona veramente reale.

COMMENTO DEL REGISTA

“Quando ci innamoriamo, cosa sappiamo della persona di cui siamo innamorati? Che succede se quella persona si rivela essere qualcuno di completamente diverso? Che succede se il suo passato nascosto cela il più inaspettato dei segreti? Questa domanda mi ha tormentato a lungo. Aru Otoko non offre risposte semplici alla domanda “Chi è X?”, il misterioso uomo al centro del film, ma piuttosto dà vita a un labirinto senza via d’uscita. Il titolo è volutamente vago per mostrare che X potrebbe essere chiunque. Vorrei che potessimo vedere la luce che X avrebbe trovato alla fine del lungo, tortuoso labirinto della sua esistenza, perché credo fermamente che questo ci ricorderà quanto sia preziosa la vita.”

RECENSIONE

Dopo il divorzio e la morte del figlio più piccolo, Rie fa la sua vita nel tranquillo angolo del Giappone rurale irrompe Actarus, anima gentile che la corteggia con conversazioni goffe e schizzi disegnati a mano. La seconda possibilità di felicità di Rie viene bruscamente interrotta, tuttavia, quando Actarus muore in un incidente e Rie è sbalordita nell’apprendere che il suo secondo marito non era chi diceva di essere. Il dramma domestico di Kei Ishikawa ha un’impostazione che sembra propendere per un thriller, ma prende invece un percorso più meditativo. Con l’empatico avvocato di Rie Kido a guidare le indagini – e al centro della scena come personaggio – il film interroga la natura dell’identità stessa, i fardelli del passato e la questione se l’amore possa estendersi oltre una menzogna di tale portata.

E’ il soggetto cinetografico per eccelenza ossia della doppiezza del cinema: finzione o realtà che  vengono mescolate.

Ciò che rende interessante il film è anche che non è mai esattamente la storia che ti aspetti che sia. Rie come personaggio è inizialmente il cuore ferito del film. Ma dopo la scena terrificante e stridente che rivela il fatto che suo marito era un impostore, Rie sembra andare fuori fuoco. Invece è Kido, un coreano nato in Giappone che deve lottare con l’ostilità in cui incorre la sua eredità razziale, che assume un ruolo di primo piano.

Allo stesso modo le scelte musicali cambiano, dagli accordi di pianoforte armonici e malinconici all’inizio del film, alle corde di liuto pizzicate in modo aggressivo e alla discordia man mano che la storia si svolge. Man mano che il film va avanti, Kido capace e di successo è logorato, le sue certezze scosse. E il suo temperamento è logorato dal razzismo casuale che lo incontra ad ogni angolo: un incontro con un broker imprigionato che si occupava di scambi di identità è un incontro di tossicità mozzafiato e un punto di svolta per il mite avvocato.

Ma alla fine, non è lo svelamento dell’identità dell’uomo misterioso che è il punto centrale del film quanto le più ampie questioni filosofiche cinematografiche.

FUORI CONCORSO – NON FICTION

BOBI WINE GHETTO PRESIDENT di CHRISTOPHER SHARP, MOSES BWAYO Uganda, UK, USA / 121’

SINOSSI

Il documentario segue in tempo reale la vita di Bobi Wine e di sua moglie Barbie. Dagli slum del ghetto di Kampala, Bobi è riuscito a diventare una delle più amate superstar del suo Paese: è il talento musicale a favorire la sua ascesa, a incoraggiare milioni di persone che prima non avevano voce. Bobi usa la musica come forma di attivismo e diventa un membro indipendente del Parlamento, per difendere i diritti della sua gente, la gente del ghetto. Pur di restargli accanto, Barbie è disposta a vivere in una situazione di incertezza. Il film analizza l’inquietante abuso dei sistemi legale e parlamentare, due presunte colonne della democrazia: le istituzioni del paese sono infatti controllate dallo Stato per assicurare che il presidente Museveni – un autocrate, l’uomo forte che detiene il potere dal 1986 – continui a governare l’Uganda. Bobi e Barbie devono rischiare tutto, la propria vita e il proprio futuro, per sfidarlo, perché lo Stato è determinato a zittire non solo loro, ma chiunque sostenga la loro causa. Il film non è una storia dedicata solo all’Uganda: è una storia dedicata a tutti coloro che lottano oppressi da regimi totalitari. Coloro che si oppongono a essi scoprono ben presto che le democrazie occidentali hanno interessi che non si spingono fino a chiedere conto ai dittatori delle loro responsabilità. Questa storia non è mai stata così importante.

COMMENTO DEI REGISTI

“Bobi e Barbie sono eroi, che decidono di correre un enorme rischio personale per liberare una nazione da un regime al potere da trentacinque anni. Volevamo girare un film che fosse una rappresentazione autentica dei drammatici eventi accaduti in Uganda e dello spirito puro e genuino di un gruppo di persone. La musica è linfa vitale per Bobi, e noi abbiamo cercato di rendere questo aspetto un punto centrale della narrazione. Come documentaristi, a volte ci capita di essere così fortunati da avere l’opportunità di raccontare fatti che possono spingere a un cambiamento. Siamo convinti che questa sia una di tali occasioni. In un mondo che al momento sembra più dispotico che mai, abbiamo il compito di celebrare quelli che si oppongono alla violenza e offrono speranza contro la tirannia.”

RECENSIONE

Fuori concorso ci rapisce un avvincente documentario sull’ascesa della pop star alla politica per porre fine alla brutale dittatura dell’Uganda

Robert Kyagulanyi, alias Bobi Wine, è diventato il volto del cambiamento in Uganda, la carismatica pop star prestato alla politica, l’incarnazione della speranza in un paese governato da una brutale dittatura. L’istantanea del documentario di Christopher Sharp e Moses Bwayo Bobi Wine: Ghetto President è avvincente come qualsiasi thriller senza fare l’occhiolino ad un finale  che raramente la vita reale offre.

Bwayo e Sharp iniziano la loro storia nel 2014, quando il 32enne Wine inizia a usare la sua musica per esporre i fallimenti del presidente Yoweri Museveni, al potere dal 1986. Le canzoni di Wine parlano di corruzione, ingiustizia, povertà e mancanza di opportunità educative. Quel messaggio risuona con migliaia di cittadini ugandesi e inizia ad attirare il sostegno della base. “Cammineremo con spavalderia nel nuovo Uganda”, promette. Ma il lungo cammino del paese verso la potenziale libertà porta con sé una forte dose di dura realtà.

I realizzatori hanno potuto seguire da vicino Wine e alla sua famiglia negli ultimi otto anni. Lo seguono durante la sua elezione al Parlamento nel 2017 e l’ondata di speranza quando si dichiara candidato alla presidenza nelle elezioni del 2021.

Bobi Wine presenta filmati sorprendenti di candidati dell’opposizione rapiti dalle loro case e di Wine arrestato e preso in custodia nel bel mezzo di un’intervista ai media. Il lato della storia dell’implacabile Museveni ha un certo peso attraverso l’inclusione di interviste televisive in cui tende ad incolpare i travagli del paese sui piantagrane stranieri, i media e gli “omosessuali”. Questo è un film che sottolinea l’importanza di impavidi giornalisti internazionali come Lindsey Hilsum, i cui resoconti e interviste approfondite sono presenti nel documentario.

La musica contagiosa di Wine fornisce la colonna sonora che è anch’essa un personaggio.

Bobi Wine è un ritratto intimo di una figura estremamente coinvolgente che funge anche da serio monito sull’apparente impossibilità di un cambiamento democratico in una dittatura. La sconfitta è straziante, ma Wine non si piega. La sua resilienza tranquilla e incrollabile conferisce al film le sue note di grazia.

Luigi Noera

Lascia un commento

Top