Alessia Bottone è regista, sceneggiatrice e giornalista laureata in Istituzioni e Politiche per i diritti Umani e la Pace con una tesi sulle migrazioni. Nel 2017 consegue il master in sceneggiatura presso l’università di Padova. E’ regista e sceneggiatrice di Violenza invisibile, Ritratti in
controluce e Ieri come oggi, pubblica Amore ai tempi dello stage con Galassia Arte 2013 e nel 2017 con Feltrinelli Papà mi presti i soldi che devo lavorare?.
Da giornalista ha ricevuto il “Premio Giornalistico Claudia Ballo” per la sua inchiesta Pfas, il “Premio Alessandra Bisceglia” per la comunicazione sociale e il “Premio Massimiliano Goattin” per una video inchiesta sulle barriere architettoniche.
Il suo ultimo lavoro, La Napoli di mio padre, è finalista del “Premio Cesare Zavattini” per la realizzazione di progetti di riuso creativo del cinema d’archivio del “Premio Luzzati” per i cortometraggi.
La Napoli di mio padre inoltre è stato tradotto in 6 lingue, selezionato in più di 70 festival e ha vinto 25 premi tra cui “Miglior Regia”, “Miglior Montaggio”, “Miglior Film” e “Miglior Sceneggiatura”. Ha, inoltre, ricevuto una “Menzione Speciale ai Nastri d’Argento 2021”, lo “Speciale Premio Troisi Registi Emergenti” e “le Prix di Public” al Festival Primed di Marsiglia.
RaccontardiCinema: Per cominciare, volevamo ringraziarti per essere qui con noi.
La Napoli di mio padre è un corto di 20 minuti, molto densi e toccanti.
E infatti ha ricevuto tantissimi riconoscimenti. Ti aspettavi tutto questo riconoscimento?
Alessia Bottone: Ci ho messo 4 anni a realizzare La Napoli di mio padre, perché usciva da un premio – il premio Zavattini – in cui è arrivato finalista ma non vincitore. Comunque, anche se non ha vinto, lo volevo realizzare, ma ho ricevuto una serie di ‘no’ da case di produzione, distribuzioni, professionisti vari…Insomma, non lo voleva nessuno. Al che quindi, proprio perché non lo voleva nessuno, io mi ci sono innamorata ancora di più e mi ci sono applicata tanto, perché ci ho messo appunto quattro anni per arrivare a realizzarlo.
E quindi in realtà dopo tutto quel lavoro sì, mi aspettavo questi riconoscimenti. Non così tanti, ma sapevo che avrebbe avuto un bell’esito perché dietro c’era un lavoro certosino di tutta la squadra.
Ma anche perché tra il cast (comunque c’è una Valentina Bellè meravigliosa) e la storia, che è una storia vera – e mi rendo conto che ci piacciono sempre di più le storie vere e abbiamo sempre più bisogno di sapere che emozioni provano gli altri, non con quello spirito da grande fratello infilando il naso nelle case degli altri ma per sentirci più simili e meno alieni – sapevo che La Napoli di mio padre avrebbe avuto un bel movimento. 25 premi in effetti sono tanti, soprattutto perché non ha una distribuzione ma ho distribuito tutto io. Sono molto contenta di questo giro che sta facendo e credo sia anche un bel trampolino di lancio per questo nuovo lavoro che sto per realizzare.
RdC: Inoltre La Napoli di mio padre l’11 febbraio 2022 sarà proiettato all’Università di Yale, nell’ambito del ciclo di conferenze del programma di workshop Linguistic Features dell’Italian Studies Department presieduto dalla Prof.ssa Jane Tylus (Italian Studies Department Chair), organizzato dalla Dott.ssa Anna Iacovella, studiosa di cinema e docente a Yale, nonché direttrice del programma Linguistico della facoltà di italianistica.
Quanto è importante un’opportunità di questo genere, e che significato ha per te?
A: Questa di Yale è un’opportunità meravigliosa, in realtà sto lavorando da 2 anni a questo evento che mi era stato proposto pre-covid e sarei dovuta andare a New York. Ci abbiamo provato per due anni, ma sono stati due anni di covid e gli eventi in presenza e oltreoceano non sono ovviamente stati possibili.
Resta il fatto che ricevere la mail in cui mi veniva proposto di presentare il mio documentario all’università di Yale alla facoltà di italianistica, quindi a studenti che studiano lingua e cultura italiana, è stata veramente una cosa emozionante. Sono molto contenta di organizzare questo evento, ovviamente online, ma è motivo di grande soddisfazione, è una bella opportunità essere anche motivo di studio per degli studenti. Ecco, questo non me lo sarei mai aspettato.
RdC: La Napoli di mio padre era un progetto che stava aspettando di emergere da tempo o ha preso forma a partire dal materiale su cui hai lavorato per il premio Zavattini?
A: E’ una storia un po’ particolare. Il tutto arriva da un viaggio che avevo fatto a Napoli con mio padre e mio fratello, ma io sono giornalista di base quindi all’epoca li ho semplicemente osservati, vedendoli passeggiare per Napoli.
Io Napoli l’ho vissuta molto pur essendo nata a Verona e l’ho sempre cercata molto, l’ho sempre sentita forte nelle mie origini, nel mio sangue, mentre mio fratello l’ha vissuta meno, vive a Milano, non ha vissuto quel contesto; quindi mi aveva colpito un padre che racconta ad un figlio la sua città.
Però era rimasta lì, scena bella e romantica, ma niente di più. Quando nel 2018 poi è uscito il bando del premio Zavattini, che scadeva in 24 ore, mi sono chiesta quale storia potessi raccontare, cosa potessi scrivere in così poche ore, e lì mi è tornata in mente quella suggestione.
Come tutti i miei lavori d’altronde: mi succede o vedo una cosa, resta lì, non ci penso più e poi dopo due o tre anni la ritiro fuori e mi offre nuove idee.
Quindi non è un qualcosa che era lì che aspettava di essere realizzata, ma qualcosa che piuttosto quando ho visto il bando ha preso forma nel progetto che ho scritto, poi ovviamente è stato rilavorato moltissime volte per arrivare a una sceneggiatura, partendo dall’intervista di mio papà e rendendolo poi in maniera cinematografica. C’è stato dunque tanto lavoro, non solo nella ricerca delle immagini ma proprio nella realizzazione di una sceneggiatura.
RdC: Nel corto c’è una frase che più di altre mi ha colpito:
“Sei sempre di profilo, non guardi mai avanti, come se voltandoti volessi riprenderti tutto ciò che hai lasciato indietro. Come se volessi riassaporare ogni singolo momento della tua vita per essere certo di non dimenticarlo e portarlo sempre con te.”
E’ una frase di forte impatto ed in effetti il corto ha una grande valenza autobiografica. Nel documentario sembra che tu stia prendendo l’eredità di tuo padre da questo punto di vista, anche tu ti stai voltando indietro riassaporando, ricercando le tue origini. Quanto è importante l’esperienza biografica nel lavoro di un regista?
A: È fondamentale. Ricordo una volta all’università, dove ho fatto un master in sceneggiatura, avevo studiato questo libro di Vincenzo Cerami che diceva “lo scrittore è colui che sa astrarsi dalle cose”, che deve cioè essere in grado di descrivere un personaggio su una navicella spaziale pur non avendo vissuto una tale esperienza. Uno scrittore professionista è colui che sa scrivere di esperienze che non ha mai avuto, documentandosi ecc., ma sicuramente qualsiasi cosa scriverà la prenderà dal suo vissuto. Mi viene in mente Harry Potter, i personaggi la Rowling li ha presi dalla sua realtà e poi li ha trasformati, ma sono frasi, sono persone che lei ha vissuto. Nel mio caso è un po’ diverso perchè li ho presi dal reale è li ho posti in una situazione altrettanto reale, quindi non li ho trasformati, ma si può dire che l’esperienza autobiografica è stata ed è fondamentale. Infatti anche il nuovo lavoro che sto portando avanti parte da una cosa che mi è accaduta e da cui ho creato una vita al personaggio.
Un singolo elemento che hai vissuto e sentito ti permette di descriverlo meglio e di rendere vero il personaggio che poi può arrivare al cuore e agli occhi dello spettatore. Sicuramente dunque l’elemento biografico è stato fondamentale: infatti parto dalla descrizione della bambina, che osserva il padre che guarda fuori dalla finestra e alla fine lei stessa guarda fuori dalla finestra. Il film parla anche di questo, il tema è il ricordo, anche se tutti credono sia la migrazione, in realtà il tema centrale è il ricordo, la malinconia – che poi è qualcosa molto frequente nella napoletanità, i napoletani sono molto malinconici e sicuramente l’hanno passata a me infatti tutti i miei lavori si basano molto sulla memoria e sul tema psicologico del bisogno di ricordare.
Anche il nuovo lavorò si concentrerà su questa tematica.
RdC: Il tema della migrazione non è il tema centrale ma effettivamente trova uno spazio. C’è quindi un’alternanza delle immagini di repertorio in bianco e nero e le immagini anche drammatiche del presente. L’elemento biografico dunque è centrale, ma si può anche scindere dalla propria esperienza per raccontare il presente in cui si è inseriti?
A: Sicuramente, si può tutto, è una questione di scelta. Ci sono storie in cui ci si rivede anche se non si sono vissute situazioni simili, come ad esempio tutti quelli che fanno film sulla camorra, sicuramente hanno studiato un presente molto attuale ma non per forza si rifanno a un’esperienza biografica.
Nel mio caso il tema della migrazione è un tema molto vicino a me, perché ho lavorato in un centro di accoglienza in Svizzera e ho scritto la tesi laurea sulla migrazione, quindi c’era una forte volontà di rendere un qualcosa che ho trattato sia a livello giornalistico che sociale all’interno di un film.
La volontà era anche quella di far emergere il senso e il tema della fuga, il sentirsi lontani da un qualcosa, e di raccontare come una persona che ha lasciato Napoli tanti anni fa possa sentirsi come il migrante di oggi, con lo stesso senso di lontananza dalle origini. Che poi è questo il senso dell’ultima frase del film che dice che “per quanto lontano possiamo andare torniamo sempre là dove tutto è iniziato”, che c’è sempre bisogno di tornare – anche moralmente quando non è possibile tornare fisicamente – da dove tutto è partito. Si nasce e si torna, si nasce dalla terra si torna alla terra, non è niente di nuovo, siamo fatti per questo.
RdC: Ci hai detto che hai avuto modo di vivere molto Napoli. Nel viverla sei riuscita a trovare la “Napoli di tuo padre” o è qualcosa che rimane inafferrabile e che possiamo cogliere solo guardando indietro? Qual è l’effetto di vivere la Napoli di oggi?
A: Parto dal presupposto che tutto ciò che viviamo, nel momento in cui diventa un ricordo viene cambiato, talvolta fortemente idealizzato o fortemente peggiorato. Non possiamo pensare che la Napoli che ho fotografato e raccontato sia la stessa Napoli realmente esistita o che esiste oggi, perché è una Napoli filtrata dai ricordi di un uomo che ha sessant’anni, all’epoca ne aveva otto, dieci, e guarda al suo passato con quell’estrema tenerezza e indulgenza che si ha rispetto alle cose dell’infanzia. Qui già c’è sicuramente un primo filtro.
C’è poi però una Napoli vera, quella narrata nel calzolaio che riesce a far studiare tre figli e farli diventare ingegneri, riparando le scarpe all’interno di un piccolissimo cunicolo dove lavora, c’è la Napoli dei mercati alle 4 di mattina dove scorrazzano i bambini al mattino e giocano insieme e vanno a scoprire la città, c’è la Napoli di mio padre, che cambia quartiere e scopre una Napoli diversa, confrontandosi con una Napoli che sta bene e non vive le sue stesse situazioni.
E’ una Napoli, quella di oggi, che sicuramente sta cambiando, essendo poi sempre più cosmopolita cambia anche il modo in cui vengono vissuti i quartieri – come tutte le grandi città.
Resta un po’ ancora in certi quartieri questa cosa del vivere in strada, ad esempio la signora anziana che è fuori dalla sua casa e conosce un po’ tutti e chiacchiera, che è un modo per sentirsi anche meno soli. Forse è meglio essere anziani a Napoli che in altre città perché c’è questo senso dello stare insieme, del viversi le cose insieme, dell’essere cresciuti insieme nello stesso quartiere, condividendo le stesse situazioni e anche un po’ la cura dei figli, che giocano insieme mentre una mamma o l’altra ci butta l’occhio. Quindi ecco, questa vita ancora in condivisione che mi ha sempre colpito la vivo ancora quando vado a visitare le persone che conosco.
È una Napoli sicuramente che sta cambiando ma qualcosina ancora c’è.
RdC: Un’ultima domanda per te. Ci hai svelato che stai già lavorando su un nuovo progetto. Quanto dovremo aspettare e cosa dobbiamo aspettarci? Sarà sempre un documentario, si tratta di uno cortometraggio o di un lungo…Cosa ci puoi dire?
A: Non posso dire nulla, posso solo dirvi che sarà un cortometraggio di fiction, quindi niente materiale d’archivio e che ci vedremo nella peggiore delle ipotesi a fine 2022, nella migliore delle ipotesi già quest’estate. Ci vuole un po’ di tempo perché è un progetto un po’ più grande e coinvolge più persone a livello produttivo e a livello attoriale,in totale una squadra di una trentina di persone. Quindi ci vuole il suo tempo. La sceneggiatura è molto bella, non lo dico io ma lo dice chi ci sta lavorando, quindi sono molto contenta e non vedo l’ora di iniziare.
RdC: Aspettiamo allora, con grande curiosità. In bocca al lupo per questo lavoro e per i progetti futuri. Grazie ancora per essere stata qui con noi!
Intervista a cura di Maria Vittoria Battaglia