SPECIALE #ROMAFILMFEST14 #5 – 17 /27 OTTOBRE 2019: (DAYS 4&5): le recensioni #3 di Francesca Salmeri

(da Roma Luigi Noera con la gentile collaborazione di Francesca Salmeri- Le foto sono pubblicate per gentile concessione della Fondazione Cinema per Roma)

Gli imperdibili della Festa di Roma!

Cominciamo dalla SELEZIONE UFFICIALE con il film più atteso The Irishman, Martin Scorsese, Stati Uniti, 2019, 209’, con Robert De Niro, Joe Pesci e Al Pacino.

Tratto dal libro di  Charles Brandt  L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa, The Irishman è il venticinquesimo film diretto da Martin Scorsese. Alle proprie spalle, Casinò (1995),  Quei Bravi Ragazzi (1990) , Mean Streets – Domenica in chiesa,  lunedì all’inferno (1973) ed i mille altri capolavori del grande cinema di Scorsese,  davanti a sé un pubblico innamorato di un certo modo di raccontare le cose, che non può non emozionarsi di fronte all’inevitabile riflessione sul tempo che trascorre.

Scorsese torna indietro di trent’anni, rapisce Robert De Niro e lo presenta al suo pubblico nell’anno 2019. Gli effetti speciali, causa dell’enorme budget che durante le riprese del film è andato a crescere fino al raggiungimento di quasi 150 milioni di dollari – causando un passaggio dalla Paramount Pictures a Netflix –  colpiscono per la loro perfezione tecnica ed il risultato si concretizza in un film in cui la tensione viene accompagnata dalla consapevolezza che qualcosa rispetto ai tempi di Jimmy Conway e Tommy DeVito  è davvero cambiato.

The Irishman conferma la capacità di Scorsese di regalare al mondo solo grandi film. La sperimentazione tecnica accompagna e non copre la grandezza degli interpreti e la profondità del tema che emerge da tutto l’apparato classico dei film sulla mafia a cui proprio Scorsese ha già dato tanto.

Nel 2011 Toy Story 3 vince l’oscar come migliore film di animazione, nel 2014 esce Boyhood di Richard Linklater. The Irishman è la risposta di Scorsese non solo ai film che trattano il tema del tempo, ma al concetto di tempo spesso. Se un regista per portare sullo schermo l’emozione della nostalgia e del ricordo decide di girare un film per dodici anni, mentre un cartone animato ci emoziona concretizzando la fugacità dei momenti nella paura di un giocattolo che non sa più a cosa serve ora che il suo bambino è cresciuto, Martin Scorsese sembra prendere in giro il tempo regalandoci Robert Niro, Al Pacino, Joe Pesci come sono stati trent’anni fa, come sono oggi e come saranno inevitabilmente domani.

In qualche modo il film si colloca su un limite vago, vicino al genere cinematografico più contemporaneo per estetica, fotografia e scelte tempistiche narrative – ricordando in questi termini i film di Paul Thomas Anderson – rimane un film che racconta di mafia, tempo e legami.

La durata del film  conferma l’aspettativa, permettendo al pubblico una messa in pratica dei concetti richiamati dal racconto raccontando trent’anni in tre ore. Nel 2016 Silence non c’aveva deluso affatto, nel 2019, a settantasette anni, Martin Scorse ha fatto un altro grande film.

Il ladro di giorni,  Guido Lombardi, Italia, 2019, 105’, con Riccardo Scamarcio, Massimo Popolizio, Augusto Zazzaro, Giorgio Careccia, Vanessa Scalera, Carlo Cerciello.

Tratto dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso regista e sceneggiatore – accompagnato nell’impresa da Luca De Benedittis e Marco Gianfreda – Il ladro di giorni deve essere considerato un film rivelazione di un certo cinema italiano che non vuole porsi il limite di dover sottostare ai soliti, banali e noiosi compromessi tipici dell’arte nel nostro paese. Il film crea la pretesa di essere un “grande film” e non la tradisce. L’interpretazione di Riccardo Scamarcio è più che convincente, il ruolo, anche lontano da quelli che gli abbiamo visto più volte interpretare, di un padre criminale che cerca di fare i conti con il proprio passato, è pensato e messo in pratica in un modo che soddisfa ed emoziona. La storia di Salvo e di suo padre, il loro viaggio insieme, le caratteristiche naturali e culturali dell’Italia che attraversano, da nord a sud, sono un insieme di elementi emotivi e ben dosati che arricchiscono la narrazione.

La qualità tecnica è alta e stupisce più che piacevolmente. Durante la visione si ha tempo di respirare l’atmosfera, l’ironia e la drammaticità dei momenti, che non vengono mai esplicitati fino in fondo, perché emergono molto più nei giochi di sguardi e nelle tempistiche dei cambi di scena che dai dialoghi fra i due protagonisti. La recitazione c’è ma il film ha il grande vantaggio di non doverne abusare, di essere in grado di raccontare per immagini, tramite il linguaggio che gli è più famigliare: quello composto dalla colonna sonora, dalla cura del trucco dei personaggi, dalla pulizia della fotografia e dall’evoluzione della sceneggiatura.

La storia di Vicenzo e Salvo è una storia che sicuramente vale la pena di essere raccontata in un libro, ma che sembra essere stata pensata e scoperta per farne il film che è diventata, nella sua completezza e complessità. Dichiarando ad alta voce la caratteristica più importante in qualsiasi prodotto artistico: l’umanità.

Dalla selezione di TUTTI NE PARLANO La belle époque, Nicolas Bedos, Francia, 2019, 110’, con Daniel Auteuil, Guillaume Canet, Doria Tillier e Fanny Ardant.

Il tempo e tutto ciò che è capace di toccare, nella vita di un uomo e di una donna, è il centro della delicatissima, complessa ed ambiziosa commedia La belle époque, di Nicolas Bedos.

Quattro narrazioni che si intrecciano l’un l’altra in un crescendo e mutando di prospettive e letture che permettono al pubblico di non annoiarsi mai e di perdersi in un film complesso e ben riuscito.

Le emozioni arrivano tutte, nella loro complessità vengono raccontate da immagini ben curate, dialoghi dolci e ben dosati, pillole d’intelligenza nascoste in una ritmica intelligente.

La tempistica del film è infatti uno dei punti forti del racconto, non si fa in tempo a concludere una riflessione esotericamente sorta da un dialogo ben riuscito che si sta già spostando l’attenzione verso un’altra rivoluzione dei personaggi che verosimili e ben studiati sanno portare avanti la fatica dell’intero film.

Grandi le interpretazioni femminili: la sempre bellissima Fanny Ardant si mostra in tutto il suo ruolo di grande attrice, tra una lacrima, una consapevolezza e qualche risata che sorge nella follia dell’essere sé stessi, interpreta Marianne: donna bellissima ma decisamente insoddisfatta che ha con suo figlio Maxime, e suo marito Victor, rapporti molto particolari. Sono le scelte di Marianne a mettere in moto tutto il film, portandoci a conoscere la seconda coppia del racconto, belli, pieni di passione e rabbia, Margot e Antoine, rappresentando la difficoltà dell’amore più giovane, che sempre confonde ma tanto viene desiderato.

Francesca Salmeri

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