SPECIALE 68ma #BERLINALE #9 – 15/25 FEBBRAIO 2018: (DAY 3) – Inland Sea di Kazuhiro Soda

A Forum un toccante documentario sulla realtà giapponese dei villaggi di pescatori

(da Berlino Luigi Noera con la collaborazione di Marina Pavido – Le foto sono pubblicate per gentile concessione della Berlinale)

Presentato in anteprima alla 68° edizione del Festival di Berlino, all’interno della sezione ForumInland Sea è l’ultimo, toccante documentario – il quale ci racconta di Ushimado, un piccolo villaggio di pescatori destinato a rimanere deserto – del regista giapponese Kazuhiro Soda.

Un anziano uomo, con il volto pieno di rughe, sale sulla sua barca da pesca e si dirige, come di routine da moltissimi anni a questa parte, verso il paesino in cui abita. La telecamera, inizialmente, si limita a osservare ossequiosamente i gesti dell’uomo, spostandosi, di quando in quando, dalla sua figura al paesaggio circostante. I ritmi sono lenti, contemplativi, non vi sono tagli di montaggio o ellissi temporali. Quasi come se ci si volesse preparare, in religioso silenzio, all’arrivo in un posto tanto isolato quanto affascinante come Ushimado. Ed è una volta giunti qui che lo stesso regista inizia ad interagire con i pochi, anziani abitanti del posto, ascoltando rapito le loro storie e sinceramente curioso di come siano soliti trascorrere le loro giornate. Si tratta di persone dedite principalmente alla pesca o alla vendita stessa del pesce, perfettamente integrate in un contesto come quello di Ushimado e che, trascorrendo il loro tempo libero dando da mangiare ai numerosi gatti randagi che popolano il villaggio e prendendosi cura delle tombe al cimitero, sembrano ormai rassegnate al fatto che, ben presto, il loro amato villaggio resterà deserto.

Kazuihiro Soda – giapponese di nascita, ma statunitense di adozione, che da sempre ha dato vita a prodotti dai toni particolarmente contemplativi che tanto, soprattutto in alcuni momenti, sembrano volerci ricordare addirittura i lavori del celebre cineasta filippino Lav Diaz– sembra fin da subito perfettamente in sintonia con ciò che sta raccontando. Al punto di volersi dedicare quasi del tutto da solo alla realizzazione del documentario, per il quale, appunto, non ha curato solo la regia, ma anche la fotografia ed il montaggio. Ciò che fin da subito maggiormente colpisce, però è l’elegante bianco e nero adottato, che sta a darci l’idea di un luogo senza tempo, di personaggi che esistono ai giorni nostri, ma che sarebbero potuti esistere anche dieci, venti, cinquanta anni fa. Un bianco e nero nostalgico e malinconico, che, allo stesso tempo, sembra guardare Ushimado come un luogo già appartenente ad un’altra epoca.

Non si può non affezionarsi agli anziani abitanti intervistati. Ognuno di loro, malgrado la calma raggiunta, non smette mai di sorprendere con storie spesso anche violente e dolorose, storie di un passato non facile, il quale appare nei loro occhi oggi vivo più che mai.

E poi ci sono i gatti. Trattati alla stregua di veri e propri bambini, il villaggio di Ushimado ne è pieno: gatti randagi, di fatto senza padrone, ma, in realtà con tante persone che si prendono cura di loro; gatti in carne, giocherelloni ed affettuosi, che, abituati ad essere sempre coccolati, si sentono fin da subito perfettamente a loro agio davanti alla macchina da presa di Kazuhiro Soda, avvicinandosi e rotolandosi davanti ad essa senza alcuna remora.

Ma questo viaggio fuori dal tempo, come tutte le cose, ha una fine. E così, verso sera, è ora per il regista e per la sua piccola troupe di salutare le persone incontrate. Un momento malinconico e quasi commovente, che trova la sua giusta conclusione con brevi inquadrature di stradine deserte, illuminate solo dalla luce dei lampioni.

Viaggio o sogno? Sembra voler essere questa la domanda che il regista vuol fare in modo che lo spettatore si ponga. Probabilmente entrambe le cose. E così, quasi come a svegliarsi da un lungo sogno, nell’ultima inquadratura, il bianco e nero lascia pian piano il posto al colore. Scelta registica suggestiva e potente che si classifica come il giusto coronamento di un lavoro pregiato e ben realizzato. Una delle inaspettate sorprese di questa ricchissima 68° Berlinale.

Marina Pavido

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