Deludente la messa in scena del poliedrico Clint Eastwood su un fatto veramente accaduto: 15:17 Attacco al Treno

Nelle sale italiane dall’8 febbraio, 15:17 Attacco al treno è l’ultima fatica del celeberrimo cineasta ed attore statunitense Clint Eastwood.

Tratto da una storia vera, il lungometraggio racconta la vita dei tre ragazzi americani – qui presenti anche in qualità di interpreti nel ruolo di sé stessi – che salvarono la vita a più di 500 persone durante un attacco terroristico ad un treno diretto a Parigi avvenuto il 21 agosto 2015.

Questo attesissimo lavoro di Eastwood ci racconta, nello specifico, tre storie di tre ragazzi problematici sin dall’infanzia, che, tuttavia, ben presto si sono rivelati dei veri e propri eroi. Interessante, a tal proposito, l’idea di voler raccontare come determinati personaggi relegati quasi ai margini della società possano poi rivelarsi tra i più meritevoli esempi di coraggio ed amore per il proprio paese. Ed è, come tradizione nella filmografia eastwoodiana vuole, proprio l’amore per la propria nazione, unito anche ad una profonda religiosità (da notare, a tal proposito, la presenza costante di crocefissi ed immagini sacre nelle scene ambientate in interni) il leit motiv dell’opera di Eastwood, nonché vera e propria colonna portante di tutta la sua cinematografia.

Ciò che, però, di un lungometraggio come 15:17 Attacco al treno proprio non convince è il fatto che Eastwood stesso, evidentemente in difficoltà nel dover arrivare al punto e nel portare avanti la storia, abbia attuato scelte registiche e di sceneggiatura in cui vediamo una serie di elementi posticci, collocati all’interno dello script solo per colmare un problematico vuoto, che vengono lasciati cadere senza mai più essere ripresi. È questo il caso, ad esempio, dei personaggi incontrati durante le già di per sé problematiche scene del viaggio dei ragazzi. Senza contare che il viaggio stesso sembra più una sorta di “video promozionale” per qualche agenzia turistica; un momento del tutto superfluo che non ha fatto altro che far perdere punti al film stesso e che avrebbe potuto essere tagliato di oltre mezz’ora.

Nulla da dire dal punto registico, questo è chiaro. Che Eastwood sappia il fatto suo per quanto riguarda la gestione del mezzo cinematografico, è qualcosa che abbiamo avuto modo di appurare già da tempo. Però una cosa è certa: i tempi gloriosi di Mystic River – ma anche del recentissimo Sully – ci sembrano, oggi, lontani anni luce. Peccato.

 

Marina Pavido

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