#VENEZIA79 – 31/8 -10/9/2022 SPECIALE #7: (DAYS 2 – 4) – le recensioni di Vittorio De Agrò

(da Venezia Luigi Noera con la gentile collaborazione di Maria Vittoria Battaglia, Vittorio De Agrò e Anna Maria Stramondo – Le foto sono pubblicate per gentile concessione della Biennale)

LUCA GUADAGNINO conquista il pubblico, Abel Ferrara si confronta con la spiritualità in Padre Pio (San Pio da Petralcina) usando incautamente l’inglese

VENEZIA 79 Concorso

© 2022 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.

BONES AND ALL di LUCA GUADAGNINO con Taylor Russell, Timothée Chalamet, Mark Rylance, André Holland, Chloë Sevigny, Jessica Harper, David Gordon Green, Michael Stuhlbarg, Jake Horowitz / USA / 130’

È complicato  esprimere un giudizio definitivo sull’ultimo film di Luca Guadagnino. Il cinema di Guadagnino si ama o si detesta profondamente. La Mostra di Venezia ha spesso stroncato i lavori del regista palermitano (vedi Splash e Suspiria), ma stamani in Sala Darsena qualcosa è cambiato. Dovrei dirvi se  mi sono “saziato” cinematograficamente  assaggiando pezzi d’amore, di solitudine, di ferocia e diversità  confluiti in una storia ambientata in una America rurale e lontana dai tradizionali canonici di rappresentazione. Il titolo stesso  “Bones and all”  (ossa e tutto in italiano)   paradossalmente raccoglie molto dell’essenza narrativa e simbolica di uno testo  ricco di spunti e  di diversi livelli d’interpretazione

“Bones and all”  è  da una parte un classico road movie  e dall’altro si snoda come una sorta di coming age /out della giovane Maren  , scaturito dall’abbandono paterno. Maren sarà messa di fronte alla sua indole più recondita e pericolosa. “Bones and all”  gronda letteralmente  sangue tramite scene forte e cruenti per poi cambiare tono diventando dolce e romantico nella pagina successiva della sceneggiatura. “Bones and all”  emana,  odora, insegue , chiede d’essere saziato d’amore ed allo stesso tempo i protagonisti si nutrono  di  carne umana. Maren e Lee sono due anime sole, selvagge,  abbandonate dalle rispettive famiglie e  sono entrambi dei cannibali.

Fino a ieri Il cannibale più famoso della storia del cinema  era stato senza dubbio il Dr Hannibal Lecter. Da oggi invece i giovani  avranno un modello di coppia cannibale come riferimento. Maren e Lee vogliono  amore, affetto , ma tale  desiderio di normalità può avere una risposta  in una natura ed inclinazione  da “lupi solitari”?

“Bones and all” mi ha ricordato per alcuni versi il controverso “Born in Killer” di Oliver Stone del 1994, in entrambi casi la patologia /diversità  unisce e rende unico il rapporto della coppia. “Bones and all” merita probabilmente una seconda e più attenta visione per scovare  tutti gli aspetti più significati  e reconditi di una storia  che procede a strappi, alternando fino all’ultima scena attimi di bellezza ad orrore, passaggi di ferocia e tenerezza, stati rabbia al desiderio di protezione. Un danza intensa quanto sfibrante che  lascia lo spettatore in uno stato di incertezza su quanto abbia davvero visto e provato. Disgusto o condivisione  nel voler  parte di una tribù, coppia, comunità anche se sui generis? Allo spettatore in sala come sempre è data l’ultima parola.

MONICA di ANDREA PALLAORO con Trace Lysette, Patricia Clarkson, Adriana Barraza, Emily Browning, Joshua Close / USA, Italia / 106’

“La mamma è sempre la mamma.”

“Di mamma ce n’è una sola”

“Ogni scarrafone è bello a mamma soja”

La saggezza popolare  ci ricorda come nella vita abbiamo poche certezze ed  una di queste è sicuramente l’amore  materno. Possiamo litigare, allontanarci  dalla propria madre magari per un lungo periodo, ma alla fine “il richiamo  della foresta”  è più forte di qualsiasi dissidio o paura di non riconoscersi più. Da bambini ci  illudiamo che i nostri genitori siano eterni, indistruttibili,  li vediamo come degli eroi, ma poi crescendo ne scopriamo i limiti, i difetti arrivando a detestarli perché incapaci di capire le nostre esigenze e vedere il nostro vero Io.

Monica è il racconto di un improvviso quanto doloroso “ritorno a casa “ compiuto fisicamente ed emotivamente dalla protagonista,  che mai avrebbe pensato di compiere. L’inizio del film ci presenta una figura femminile decisa, sensuale, curata, elegante, nonostante ciò è  alle prese  con una seria crisi di coppia, che affligge la donna . Non abbiamo altri  elementi su chi sia Monica, quando riceverà una telefonata  d’aiuto da parte di una donna. Quella donna è Laura, una cognata mai conosciuta prima, che le ha chiesto di tornare a casa perché il cancro sta uccidendo  sua madre. Monica, sebbene  riluttante, accoglie quest’invito, nonostante da più di vent’anni non abbia rapporti con la propria famiglia. Monica entra in punta di piedi a casa sua, quasi fosse veramente un’estranea, sentendosi di troppo in un contesto familiare che non riconosce  più come proprio. Lo stesso fratello inizialmente  stenta a riconoscerla, ma c’è una buona ragione. Vent’anni fa non c’era Monica, ma un ragazza imprigionata in un corpo maschile. Un ragazzo che si è ritrovato ad affrontare da solo questa difficile transizione, essendo stato, anni prima, disconosciuto come figlio dalla stessa madre

Andrea Pallaoro  e Orlando Tirado  hanno dimostrato sensibilità oltre che talento nell’affrontare e sviluppare  tematiche così complesse e controverse  in unico contesto narrativo: la transizione sessuale, la malattia di un genitore  e la pacificazione familiare.

C’erano le condizioni perché una storia così potente e simbolica potesse scivolare in una spirale drammatica  e da toni  eccessivi o melodrammatici. Invece Pallaoro ha  stupito  positivamente  optando per uno stile di racconto essenziale, misurato, pacato e segnato da  un ritmo  lento,  diluito. Una scelta autoriale che riteniamo  felice , coerente e convincente sotto aspetto , con il fin di far scoprire allo spettatore gradualmente  il “segreto” di Monica. “Monica”  è un film che si prende tutto il tempo necessario nello spiegare, mostrare i rapporti attuali e pregressi tra i personaggi e quali effetti e cambiamenti sono  in corso  con il ritorno di Monica. Il prima e dopo di Monica sono affrontati con pudore, delicatezza,  senza cedere mai ai cliché e stereotipi.

Trace Lysette è Monica  e più che mai in questo caso dobbiamo dire che il film è incentrato, retto dalla potente, toccante e  delicata interpretazione dell’attrice americana. Lysette  ha retto il peso dell’intero film,   fornendo un’esibizione per sottrazione,  dando spazio  al proprio corpo in modo pudico quanto carico di pathos e dignità. Il lento quanto toccante riavvicinamento tra madre e figlia conquista e commuove lo spettatore, anche grazie all’affiatamento e naturalezza mostrata dalla coppia Trace Lysette, Patricia Clarkson nelle scene girate insieme.

Ci si può allontanare dalla propria famiglia, sentendosi incompresi, non accettati e financo rinnegati. Ma  la storia di Monica ci  regala  la commovente e poetica conferma, che con tutti i limiti del mondo, solo la  tua famiglia può darti quella serenità lungamente inseguita.

ORIZZONTI

POUR LA FRANCE di RACHID HAMI con Karim Leklou, Shaïn Boumedine, Lubna Azabal, Samir Guesmi, Laurent Lafitte, Vivian Sung / Francia, Taipei / 113’

La scrittura ed in più in generale l’arte possono svolgere una funzione catartica, lenitiva, salvifica anche dal dolore più forte e straziante come la tragica ed improvvisa morte di un fratello.

“Pour la France” come indicato nei titoli di testa è ispirato ad una storia vera. Abbiamo scoperto dopo che la storia riguarda  quella di Jallal Hami, fratello del regista, vittima di nonnismo mentre prestava servizio in una prestigiosa accademia militare in un fredda notte d’autunno del 2012. Rachid Hami ha voluto omaggiare “a suo modo” la memoria del fratello, ripercorrendo la vicenda, ma  andando anche oltre, trovando una buona sintesi tra esperienza personale sguardo sincero sulla Francia e sui rapporti familiari.  Hami ha optato per un struttura narrativa divisa su due piani temporali.

Sullo schermo  si alternano scene del presente con la camera ardente del fratello e flash back del passato  divisi tra l’Algeria (paese natio della famiglia) e Taiwan dove il defunto  frequentava un master. Una  scelta narrativa e temporale che si rivela complessivamente convincente e funzionale al progetto: raccontare senza  urlare

Condividere un dolore senza per forza dover indicare un colpevole. Hami  ha voluto unire passato e presente della sua famiglia costretta dalla tragedia a riunirsi e parlarsi di nuovo. A dieci anni dalla tragedia   il regista  ha voluto dire la sua sulla tragedia, sulla Francia, sul nonnismo e sulla  sempre più difficile convivenza interraziale.

Ismael ( un credibile quanto enigmatico Karim Leklou) ricevuta la tragica notizia dalla madre, non può fare altro che accompagnarla a ritirare il corpo.  I volti sgomenti , piangenti, affranti quanto composti e dignitosi rappresentano  però una versione diversa e lontana dal solito mood rabbioso dei francesi naturalizzati , così raccontati al cinema negli ultimi anni. La famiglia di Aissa vuole  si giustizia, chiede di sapere perché e chi ha ucciso un ragazzo di 23 anni, ma altresì lotta per  avere una sepoltura  in un cimitero militare. Perché cosi avrebbe voluto Aissa, che aveva scelto di servire la Francia indossando la divisa.

Pur affrontando molti delle questioni più attuali della società francese , il regista allarga il fronte narrativo ed esistenziale del film,  ripercorrendo  in particolare alcuni momenti della vita di Ismaël   vissuti insieme al fratello e/o da solo in Algeria, Francia e Twain. Ismael è il fratello maggiore ma anche la pecora nera della famiglia. Con la morte di Aissa, tutto  cambierà per lui, dovendo finalmente scegliere chi essere da grande.  Hami  ci offre una visione asciutta, diretta, delicata e scevra da qualsiasi forma di melodramma o vittimismo. “Pour la France” partendo da  una tragedia terribile e familiare, diventa un film corale, universale e poetico che ognuno potrà sentire un po’ suo in ogni suo passaggio.

ORIZZONTI EXTRA

L’ORIGINE DU MAL – FILM DI APERTURA di SÉBASTIEN MARNIER con Laure Calamy, Doria Tillier, Jacques Weber, Dominique Blanc, Suzanne Clément, Céleste Brunnquell / Francia, Canada / 125’

Quanto è importante , vitale per chiunque di noi  sentirsi amati, accettati ? La famiglia  rappresenta un’ istituzione opprimente o  possiamo ancora vederla, sentirla come un luogo  sicuro? Ed ancora esistono ancora delle famiglie  felici o proprio all’interno del nucleo familiare si sviluppano gli istinti più oscuri e feroci dell’uomo?

Ogni famiglia ha la propria storia, segreti e scheletri dell’armadio che possono sconvolgere lo status quo:  come ad esempio l’arrivo di figlia illegittima quanto desiderosa di ottenere un po’ d’affetto paterno. Il film è un  arzigogolato tentativo creativo di mescolare il genere noir con il dramma familiare  cercando d’imitare i toni e soprattutto lo stile unico  di Alfred Hitchock nel  raggiungere il climax facendo sobbalzare ed inquietare lo spettatore. Invece si rivela essere una sorta di “fritto  misto” drammaturgico  in cui l’intreccio cambia con troppa facilità  pelle, identità e genere con il solo scopo di sorprendere, ma finendo così per  rendere la visione dispersiva, lunga e cervellotica.

Lo spettatore fatica nel trovare il giusto mood psicologico per approcciarsi ad una visione disturbante, cupa e cinica sulla famiglia. Chi è davvero Stephanie? La donna è una novella Cenerentola oppure è un abile manipolatrice?

In effetti è un inno nascosto alla doppiezza del Cinema!

Laure Calamy sfodera una performance davvero sontuosa, ardita, ricca di sfumature e contraddizioni psicologiche con l’obiettivo  parzialmente riuscito di rendere impossibile allo spettatore di capire la vera natura del suo personaggio. Ma nonostante i talenti attoriali della Calamy e della beklla Dorian Teller, insolitamente quanto efficacemente  sotto tono, la storia sbanda continuamente come se il regista non avesse chiaro  con quale taglio indirizzarla e soprattutto chiuderla ( c’erano almeno 3 finali più che plausibili, rispetto a quello scelto decisamente grottesco e stridente con quanto visto per quasi due ore.

“L’origine del male” è costruito come fosse un gioco di specchi in cui il ruolo di vittima e carnefice si scambiano e confondono  tra i personaggi di una famiglia in cui l’odio ed il sospetto reciproco rappresenta l’unico collante possibile. Avrebbe voluto raccontarci, mostrarci e soprattutto trasmettere tramite i diversi personaggi come l’assenza o meno di una famiglia nella vita di una persona possa essere decisivo spesso in negativo. Ma questo affresco familiare voluto da Sébastien Marnier e presentato qui in Laguna, appare decisamente forzato e sprezzante  sull’idea famiglia senza possedere però la forza  destabilizzante che ebbe all’epoca il film danese “Festen”.

In conclusione possiamo affermare che sono proprio le persone più  instabili a sentire bisogno di una famiglia anche a costo di compiere atti truffaldini ed impensabili pur di farne parte.

FUORI CONCORSO – FICTION

PEARL di TI WEST con Mia Goth, David Corenswet, Tandi Wright, Matthew Sunderland, Emma Jenkins-Purro / USA / 102’

“Pearl” di  Ti West ribalta meritoriamente  le mie granitiche certezze sulla saga “X” , oltre ad  offrire  il ruolo della vita all’attrice Mia Goth. Pearl nel primo film  era il nome della vecchia  donna che animata da insospettabili quanto irrefrenabili desideri insieme al marito compiacente, aveva dato inizio al massacro della troupe cinematografica, mostrando di possedere  un’ innata e sconcertante ferocia. Tante domande erano rimaste sospese su questa donna. Chi fosse realmente e quali motivi l’avessero portata a diventare un’assassina senza scrupoli.

Ti West aveva già in mente di rispondere a tutti questi interrogativi  realizzando un prequel davvero inquietante, folle, ancora più splatter, ma migliorato  da un salto qualitativo in fase scrittura. Si nota infatti  lo sviluppo psicologico ed esistenziale realizzato  sulla  protagonista ed il parallelismo  sanitario -politico tra il periodo della” febbre  spagnola”  e quello vissuto da noi con il Covid 19.  Se da una parte Pearl  è apparentemente una ragazza della sua epoca:  sposina con il marito al fronte , confinata in una sperduta fattoria e vessata da una rigida madre, dall’altra avvertiamo chiaramente come questo status di cose è destinato a cambiare. Pearl sogna il mondo spettacolo, brama le luci della ribalta, si sente bella, brava e non disegna le attenzioni di altri uomini. Non accetta  un futuro da stupida e povera contadina che la madre gli prospetta ogni volta che discutono. Pearl nasconde un lato oscuro, minaccioso che sempre più spesso emerge dietro quel volto angelico e sorridente. Mia Goth è straordinaria nel ruolo dell’instabile, vogliosa, feroce quanto ingenua Pearl.

Goth ha radicato nel suo personaggio un’ aurea di sconcertante cattiveria e spietata determinazione  ben nascosta  dentro i panni di una semplice contadina. Mia Goth incarna  magistralmente lo scivolamento verso la follia della ragazza,  derivante  dalla brusca fine dell’illusione artistica. Nessuno si salverà dalla furia di Pearl quando si rende conto che i suoi sogni di gloria sono stati drasticamente ridotti. Il mondo dello spettacolo è una giungla, pochi ne escono vivi e sani. Questi pochi , devono augurarsi di non incontrare Pearl, poco incline ad accettare le vittorie e le gioie degli altri.

GdA SELEZIONE UFFICIALE IN CONCORSO

PADRE PIO di Abel Ferrara Italia, Germania, UK, 2022, 104’

Mi ha colpito legittimo stupore  quando ho scoperto che il provocatorio regista americano Abel Ferrara avesse dedicato il proprio tempo e creatività nel firmare una pellicola su “Padre Pio” oltre tutto in concorso a Venezia 79, nella sezione parallela  delle “Giornate degli Autori”. Una curiosità mista al timore di qualche “blasfemia” cinematografica mi ha accompagnato durante l’intera visione.

Ebbene,  chiariamo subito il punto: Abel Ferrara ha affrontato il tema “Padre Pio” mostrando  un “laico “rispetto” e dando prova di  una buona conoscenza storica e sociale dell’Italia del 1919. “Padre Pio” non si rivela strutturalmente e stilisticamente come un biopic sul santo come ci aspetteremmo dal titolo , ma bensì  è  parte di un affresco più  ampio e drammatico di un Paese uscito devastato, impoverito dalla guerra  e con i reduci tornati dal fronte illusi d’essere accolti come eroi ed invece trattati come “carne da macello” dai padroni

L’arrivo del giovane frate Pio al monastero di San Giovani Rotondo  è paradossalmente oscurato dal più atteso rientro dei soldati  in paese, dove ci sono genitori, mogli e figli in angosciante e trepidante attesa del proprio caro, San Giovanni Rotondo è il simbolo di  un ‘Italia povera, ferita, umiliata e soprattutto dove le ingiustizie sociali sono evidenti e legittimate dal potere costituito.

La rabbia degli ultimi è forte e trasversale sospinta dagli echi della rivoluzione bolscevica che ha deposto lo Zar. Soldati, donne, contadini sono accomunati dal desiderio di cambiamento e pronti alla lotta politica per rovesciare nelle elezioni amministrative il governo locale composto da proprietari terreni, ecclesiastici ed il nascente partito fascista. Ferrara ha deciso d’alternare sulla scena il tumulto sociale ed esistenziale degli abitanti della comunità, al tumulto spirituale vissuto da un Padre Pio in continua lotta contro  le apparizioni e tentazioni del maligno.

Volendo azzardare un comune filo rosso di queste due storie che mai si toccano sullo schermo, possiamo dire che Ferrara abbia voluto mostrare un duplice scontro tra il bene ed il male , in chiave spirituale con la lotta di Padre Pio con il Diavolo impersonificato anche da Asia Argento e dall’altra il male incarnato dai poteri locali che si rifiuteranno di riconoscere  prima i diritti e poi la vittoria elettorale dei “rossi”.

“Padre Pio”  è un film visionario quanto crudo, simbolico quanto  amaro, girato  interamente in lingua inglese che, a nostro modesto parere, ha rappresentato un grave vulnus alla fluidità e credibilità di una storia  visceralmente italiana.

Ci permettiamo di dire che Abel Ferrara avrebbe dovuto optare per la lingua italiana, anziché puntare all’idea universale del messaggio.

Shia Labeouf si è  calato con grande umiltà, intensità nel difficile quanto controverso ruolo di Padre Pio  ,trovando un giusto equilibrio attoriale oltre che umano, ma finendo “prigioniero” della visione artistica e drammaturgica di Abel Ferrara.

“Padre Pio” ha due anime, due visioni ,due storie che faticano visivamente ad armonizzarsi, depotenziando l’idea di partenza ed il fascino di un biopic  particolare ed affascinante.

Difficile da stabilire oggi se questa versione di“Padre Pio”  potrà conquistare il cuore del pubblico italiano o magari scatenare i malumori dei  devoti del santo di Pietralcina, ma sicuramente il film di Abel Ferrara farà discutere e dividerà, come nelle migliori tradizioni italiche.

BLUE JEAN di Georgia Oakley – opera prima United Kingdom, 2022, 93’

Ci si deve nascondere, vergognare del proprio indirizzo sessuale? Un omosessuale, una lesbica è meno credibile, competente , professionale di un etero? Un insegnante  gay  è qualificato per insegnare ai nostri figli? L’inclinazione sessuale dovrebbe essere esplicitata solamente per la comunità LGBT?

Oggi queste domande appaiono fastidiose, assurde ed illogiche  anche solo da sentire, invece  trent’anni fa    erano ricorrenti e rilanciate e sostenute da una grossa fetta dell’opinione pubblica in Italia ed anche nella liberale Inghilterra.

Nell’Inghilterra conservatrice di Margaret Thatcher,  la diversità assumeva un significato negativo.  La diversità in campo sessuale era vista e classificata come una “devianza che la società doveva contenere, correggere, limitare.Nel 1988  i conservatori tentarono di far approvare una proposta  di legge che equiparava gli omosessuali ai pedofili, negandogli la possibilità d’insegnare nelle scuole perché ritenuti moralmente inadeguati oltre che professionalmente .

“Blu Jean” ci conduce emotivamente ed esistenzialmente in quel drammatico momento storico,  conoscendo la complessa storia di Jean, brava e bella insegnante di educazione al liceo. Jean ama il proprio lavoro, segue con attenzione le sue studentesse, ha una vita tranquilla, semplice ed ama la propria compagna, una donna tosta e carismatica. Già Jean vive una doppia vita: di giorno  insegnante modello  e mente di  sera  vive la sua esperienza lesbo  dopo un infelice matrimonio e doloroso divorzio.

Jean si sforza di vivere, tenere insieme queste due vite  volendo fornire all’esterno un senso di normalità e rispettabilità. Jean è bellissima quanto  schiva, quasi silenziosa, impegnata con tutte le sue energie nel reprimere proprie emozioni e sensazioni,  volendo proteggersi dal giudizio e pregiudizio della società e della sua famiglia. Jean è scappata da una vita che non le apparteneva,  se ne è costruita una nuova più vera e adatta alla propria natura, eppure  è costretta ad indossare ogni giorno una maschera.

Jean sebbene sia ribellata ad un destino scritto da altri e seguito il proprio istinto,  è rimasta ingabbiata  in un mondo scolastico  retto dall’ipocrisia e pregiudizi. L’equilibrio mentale e sociale di Jean  viene meno quando Louise,  una sua studentessa si dichiara lesbica   nonostante i problemi e pregiudizi destinati a subire dai suoi compagni di scuola. Louise vorrebbe avere il sostegno di Jean , non sentendosi sola in questa sfida, ma l’insegnante si rivela inizialmente pavida di fronte a questa richiesta d’aiuto. Il coraggio di Louise nel mostrarsi per quello che è rappresenta un vulnus per Jean che invece  ha scelto di indossare una doppia maschera pur d’essere accettata in società. Jean dovrà affrontare i propri demoni interiori e scegliere da quale parte stare e soprattutto dimostrare d’essere la giusta insegnante anche di vita per Louise.

“Blue Jean” è un film intenso, vibrante, emozionante che pur raccontando un momento storico ormai lontana, non sfugge quanto sia ancora attuale e drammaticamente divisivo.

Rosy McEwen è una  bravissima, magistrale,   credibile interprete di Jean  incarnandone bellezza ed inquietudine, coraggio e timore, orgoglio e riscatto. Rosy Mc Ewen  regge il peso dell’intero film con grande forza, naturalezza e talento  rivelandosi l’arma in più della regista che firma un bellissimo racconto di formazione ed emancipazione femminile e civile, avendo come unico limite quello dei “troppi finali”.

Peccato che “Blue Jean” poteva concludersi già diverse volte nell’ultimi venti minuti.  Quest’attesa della fine provoca una riduzione della fluidità e del ritmo di una visione che resta comunque di grande valore ed impatto.

SIC 37

Film d’apertura: THREE NIGHTS A WEEK Trois par semaine nuits Florent Gouëlou France 102

“Al cuor non si comanda” recita un vecchio proverbio.

Le leggi dell’attrazione sono misteriose, potenti, quanto inspiegabili.

Nonostante la mia personale resilienza a certi tipi di cambiamenti ed orientamenti,   è ormai chiaro come la sessualità non si possa più “racchiudere” all’interno di un classico ed esclusivo doppio schema : maschio e femmina.

I generi sono molteplici ( gender, trans, drag, fluido), rischiando di mandare ai matti  anche chi responsabilmente  desidera essere costantemente  aggiornato su queste categorie.

La stessa grammatica è stata forzata  per  non mortificare le sensibilità di chi non si sente “rappresentato” da un singolare pronome  (Lui o Lei) a favore di un più rassicurante e generico “Loro”.

Confesso d’aver avuto qualche difficoltà nell’individuare  corretto  mood    per valutare  “Tre notti a week end” , film d’apertura della Settimana della Critica”.

Non possedendo una solida  conoscenza del “sotto genere” drag queen  ad eccezione di alcune figure stereotipate di romanzi  od immagini di qualche celebre film,  non mi è apparso subito chiaro  quale fosse il focus narrativo ed emozionale ricercato in scrittura e poi sulla scena da Florent Gouëlou.

“Tre notti a week end” è stato costruito  con  l’ambizione registica di tenere insieme il genere commedia romantica e l’universo drag queen con l’aggiunta del “sempre verde “ triangolo amoroso, elemento  tanto  caro alla cinematografia francese.

Sulla carta  queste ambizioni potevano anche un senso , ma sfortunatamente nella  messa in scena, l’intreccio si è rivela forzato, prevedibile, stereotipato almeno sul versante commedia romantica.

L’improvvisa quanto fulminea attrazione /interesse di Batpiste verso Cookie, giovane drag queen, appare poco  credibile , forzata non giustificata dai fatti narrativi ed evoluzioni sentimentali e intime.

La curiosità, il desiderio di conoscere , di provare che doveva essere la scintilla dell’avvicinamento tra i due personaggi  è  banalizzato,  percepito semmai come un momento di noia, indecisione di Baptiste che mal si concilia con  il desiderio autoriale di  far conoscere la comunità drag queen.

Una comunità  frizzante, colorata, rumorosa  in cui  una certa  teatralità collettività ed unicità introspettiva si alternano  con  efficacia e sensibilità sulla scena attraverso gli altri  personaggi.

Quello sì che è un passaggio riuscito sul piano visivo, narrativo oltre che stilistico offrendo allo spettatore una prospettiva fresca ed inusuale sulle drag queen in chiave competitiva ed identitaria.

Se il  triangolo amoroso Batpiste- Cookie -Samia  non buca lo schermo rimanendo bloccato dentro i soliti cliché, sorprende invece positivamente  quando i riflettori si accendono su Quentin.

Quentin  è ragazzo sorridente, gentile quanto ambizioso che si  nasconde dietro il trucco e l’eccessività da drag queen,  evidenziando le contraddizioni  di una persona di voler vivere liberamente una doppia vita.

Romain Eck è versatile, poliedrico, carismatico   dimostrando di possedere artisticamente ”  spalle larghe” per supplire ai limiti strutturali e difetti di scrittura  sopracitati.

“Tre notti a week end” è  complessivamente un film incompiuto, imperfetto, ma possedendo  alcuni  elementi che ne legittimano la visione regalando un sorriso e uno spunti di riflessione anche allo spettatore più  conservatore.

MARGINI — Niccolò Falsetti  Italia 91’

“Margini” di Daniele Falsettti ,unico film italiano in concorso nella Settimana della Critica,  ha il merito di raccontare una storia, una passione,  un ‘esperienza che lo spettatore  più comune può comprendere e magari sentire propria nonostante sia stato inserito in una sezione generalmente molto sperimentale

“Margini” è  una storia di musica, d’amicizia e riguarda in ultima analisi l’ affermazione di sé ,  puntando narrativamente e strutturalmente  tutto sulla sfera umorale e personale dei tre  giovani protagonisti  evitando fortunatamente  un taglio criptico,  autoriale-

“Margini” possiamo idealmente inserirlo a metà strada tra due film cult e generazionali  quali “Ovosodo “ di Virzi e “Radio freccia” di Ligabue, accomunati dall’amore per la musica,  il passaggio  generazionale ed esistenziale vissuto dai personaggi.

“Margini” presenta uno script lineare, asciutto, basico dando vita ad una storia che si muove su linee narrative e stilistiche già battute , a tratti prevedibili, ma comunque resa godibile e divertente da un cast artistico  adeguato e brioso.

“Margini”  presenta diverse sfumature  e toni  che si sforza  d’essere  un genere “indie” , ma finendo però per risultare una commedia generazionale agrodolce  senza mai raggiungere  picchi elevati.

“Margini” è quel classico film che una volta visto, sarà ricordato con affetto mista ad amarcord, ma  senza ulteriori “margini” migliorativi.

Vittorio De Agrò (RS)

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