Speciale 35mo #TFF TORINO Film Festival – Le recensioni di Marina #8 THE SCOPE OF SEPARATION (Concorso) – il giovane cieneasta cinese Yue Chen delude per il poco coraggio di trovare un suo stile

Presentato in concorso alla 35° edizione del Torino Film FestivalThe scope of separation è l’ultimo lungometraggio diretto dal giovane regista cinese Yue Chen.

Ci troviamo a Taipei. Lui Shidong è un giovane orfano che, grazie ai soldi ereditati dai genitori, può permettersi una vita agiata. Il ragazzo è solito trascorrere le sue serate in un pub a giocare a carte o a biliardo. Dopo una serie di relazioni senza seguito, tuttavia, il giovane inizia ad interrogarsi su quale sia il suo ruolo nel mondo e, pian piano, intraprenderà anch’egli un proprio percorso di crescita.

Siamo d’accordo, nella sua forma, questo piccolo prodotto di Yue Chen è anche gradevole. Fa da subito una certa simpatia, infatti, questo giovane perdigiorno che, a tratti, sembra ricordarci tanto il cosiddetto giovin signore raccontatoci a suo tempo da Giuseppe Parini. Grazie ad un andamento narrativo contemplativo ma allo stesso tempo leggero quanto basta, ad un commento musicale che tende a sdrammatizzare ciò che ci viene mostrato sullo schermo e, soprattutto, ad una voce narrante – quella dello stesso protagonista – che accompagna passo passo le vicende messe in scena, The scope of separation riesce tutto sommato ad intrattenere piacevolmente lo spettatore durante tutta la sua breve durata.

Il problema di un lungometraggio come questo preso in esame, tuttavia, è proprio il volersi rifare a tutti i costi ad altri importanti autori. Uno di loro, ad esempio, è Hong Sangsoo, che per il suo particolare stile tende ad essere spesso emulato dai giovani cineasti che hanno avuto modo di apprezzarlo. Data la scelta di inserire una costante voce fuoricampo (peraltro piuttosto azzeccata in tale contesto), verrebbe da pensare anche ad un nome come quello di Woody Allen, con tutte le sue analisi introspettive e le sue crisi esistenziali che tanto ci hanno fatto divertire e riflettere. A differenza di quanto realizzato da tali autori, però, Yue Chen non riesce a conferire alla sua opera il carattere necessario per acquisire una propria, personale identità. È come se le stesse vicende di Liu Shidong, oltre a strappare un sorrisetto di quando in quando, non riescano a trasmettere quasi nulla all’esigente pubblico. Il rischio, in questi casi, è che il prodotto in sé venga dimenticato appena pochi giorni dopo la visione.

Destino, questo, che accomuna questo lavoro di Yue Chen a molti altri lungometraggi di giovani cineasti che ancora devono trovare la propria strada. Se non si avesse così tanta paura di osare e di tentare nuove strade, forse, le cose sarebbero di gran lunga diverse.

Marina Pavido

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