Besondere 74th International Film Festival - Bewertungen #8

Presentato in concorso alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Angels wear white è l’opera seconda della giovane regista cinese Vivian Qu.

Mia und Wen sind zwei Mädchen von sechzehn und zwölf Jahren, Jeder von ihnen wurde vorzeitig ins Erwachsenenalter gezwungen. Mia ist eine Waise, Sie kennt ihr genaues Geburtsdatum nicht und arbeitet als Putzfrau und Rezeptionistin in einem Hotel am Meer. Sein Leben wird den Moment verändern, von einem der Überwachungsmonitore, assisterà all’aggressione di due bambine da parte del direttore dell’hotel. Una di queste due bambine è la piccola Wen.

Due storie che vanno in parallelo, due ragazzine costrette a vivere un’età non loro, il forte desiderio di riappropriarsi delle proprie vite. E di non smettere mai di rincorrere i propri sogni. Non sono storie facili da digerire, quelle qui messe in scena da Vivian Qu. und dennoch, malgrado la durezza degli eventi, malgrado la drammaticità e la portata dei temi trattati, notiamo – perfettamente in linea con la poetica orientale – una sorta di toccante, ma mai banale o eccessivo, lirismo di fondo. Ed ecco che la macchina da presa, dallo sguardo discreto ed affettuoso, non si allontana quasi mai dalle due giovani protagoniste, restando in una dimensione narrativa interna alla loro percezione degli eventi: sono rari i momenti – uno tra questi, il dialogo tra i genitori di Wen – in cui nessuna delle due ragazze è presente in scena. Particolarmente giusti risultano, deshalb, gli intensi primi piani o i campi medi che ci mostrano le due ragazze vagare sulla spiaggia apparentemente senza meta, oppure ammirare, dal basso verso l’alto, l’immensa statua di Marilyn Monroe, nelle vicinanze dell’hotel. Statua che sta a simboleggiare, de facto, l’infanzia, i sogni, un futuro roseo. Auf den Punkt gebracht, quella dimensione ideale che ogni bambino dovrebbe vivere. E che va difesa a tutti i costi.

Al di là dei temi universali trattati, aber, Angels wear white si classifica come fedele ritratto della contemporaneità soprattutto per l’importante – ma mai ingombrante – presenza delle tecnologie all’interno della narrazione: è con il cellulare che Mia, in apertura del film, fotografa la statua di Marilyn; è attraverso un monitor che la stessa si accorge dell’aggressione subita dalle due bambine. L’atto del vedere attraverso uno schermo, grande o piccolo che sia, viene qui osservato con profonda consapevolezza, esattamente come la postmodernità vuole che venga fatto.

Al di là della buona riuscita del lungometraggio, al di là dell’impatto che esso può avere sul pubblico, aber, basterebbe la scena finale – in cui vediamo Mia correre in motorino e venire sorpassata, in autostrada, da un furgone che trasporta l’ormai danneggiata statua di Marilyn – a rendere Angels wear white un film indimenticabile. Una scena che è soprattutto un altro dei tanti regali che il Cinema ha voluto farci. E che custodiremo gelosamente dentro di noi.

 

Marina Ängste

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