#ROMEFILMFEST 20 – 15/26.10 2025 SPECIALE #12 (DAY 6)

Il FOCUS di Eleonora Ono – BEST OF 2025

(da Roma Luigi Noera, con la gentile collaborazione di Eleonora Ono e l’apporto di Gaia Serena Simionati – le foto sono pubblicate per gentile concessione di #ROMEFILMFEST)

La sezione non competitiva prende a prestito dai Festival i migliori film tra cui “Die, My Love”: Ramsay seziona la maternità come trauma, tra psicosi e claustrofobia emotiva

Con Die, My Love, adattamento dell’omonimo romanzo di Ariana Harwicz, Lynne Ramsay firma uno dei suoi lavori più estremi e disorientanti. È un’opera disturbante, sensoriale, in cui il concetto di maternità viene completamente spogliato della sua iconografia idealizzata e affrontato nella sua declinazione più oscura: quella della perdita di sé.

Il film segue la parabola discendente di Grace (Jennifer Lawrence), ex scrittrice, ora madre, confinata in una casa di campagna con un neonato e un marito emotivamente assente (Robert Pattinson). Da questo quadro apparentemente ordinario, Ramsay costruisce una narrazione che rifiuta ogni linearità. Il disagio della protagonista non è solo raccontato, ma esperito dallo spettatore grazie a una regia che affonda volutamente nel caos.

Il montaggio spezzato, le ellissi temporali, l’assenza di un flusso narrativo riconoscibile: tutto nel film concorre a riprodurre l’instabilità psichica di Grace. Ramsay rinuncia a ogni tentativo di spiegazione, lasciando che l’esperienza visiva e sonora parli da sola. La colonna sonora naturale — il frinire insistente dei grilli, il vento tra gli alberi, i rumori minimi e amplificati della casa — assume un ruolo primario, invadendo lo spazio sonoro con un effetto di costante tensione uditiva.

Il sound design non accompagna, ma disorienta. E insieme alla fotografia — che si muove in una palette cromatica desaturata, dove il grigio domina ogni scena come segno tangibile di un’energia vitale prosciugata — costruisce un’atmosfera di angoscia che non concede tregua.

L’uso insistito di inquadrature dal basso verso l’alto contribuisce a un senso di sopraffazione visiva.

Lo spettatore guarda Grace sempre un po’ dal fondo, come se fosse sepolta nel suo stesso malessere, schiacciata da un mondo che non contempla il suo disagio.

Ramsay evita ogni retorica della “madre coraggiosa” o della redenzione: Die, My Love è un’opera che non salva e non assolve. È l’anatomia implacabile di un’identità che si frantuma, che rifiuta il ruolo imposto e si perde nell’assenza di alternative. L’assenza quasi totale di dialoghi acuisce il senso di isolamento, mentre la struttura frammentata riflette una coscienza disgregata, incapace di articolarsi in narrazione coerente.

Il rischio di un eccesso estetico, di una forma che sovrasta il contenuto, è palpabile. A tratti, il film sembra sfuggire di mano alla stessa regista, sopraffatto dalla furia emotiva della protagonista. Ma proprio in questa perdita di controllo — voluta, cercata, esasperata — risiede il nucleo più potente del film. Die, My Love non cerca empatia, ma immersione: un’immersione disturbante nel buio di una mente che si disgrega.

In un cinema che troppo spesso idealizza la maternità come approdo naturale, luminoso, definitivo, Die, My Love arriva come una crepa nel vetro. Ramsay non racconta l’eroismo della madre, ma la frattura silenziosa che può aprirsi dietro la sua figura. Non c’è redenzione né conforto, solo il corpo e la mente di una donna che si disgregano nel silenzio di una casa piena di suoni. È un’opera che disturba perché rifiuta l’ordine, l’empatia facile, la narrazione lineare. Eppure, proprio nel suo spaesamento, nella sua furia trattenuta, nel suo dolore muto, la pellicola trova una forma di verità che raramente il cinema osa toccare: che a volte, diventare madre significa anche perdersi. E che raccontarlo non è solo necessario, ma profondamente umano.

Eleonora Ono

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