#CANNES78 – 13/24 maggio 2025 SPECIALE #10 (DAY3)

Lo sguardo critico di Vittorio De Agrò dal Palais

(da Cannes Luigi Noera e Vittorio De Agrò (RS) con la gentile collaborazione di Eleonora Ono – le foto sono pubblicate per gentile concessione del Festival di Cannes)

Al terzo giorno del Festival Terry Fremaux conferma l’attenzione al sociale con due film da premiare

COMPETITION

Dossier 137  di Dominik Moll

Un’opera che si inserisce con coerenza nel dibattito europeo sulla violenza istituzionale e che invita a riflettere su chi paga davvero il prezzo della verità

Trama: Stéphanie è un’investigatrice esperta dell’IGPN, l’organo che controlla la condotta delle forze dell’ordine. Quando, durante una manifestazione, un giovane manifestante resta gravemente ferito da una palla esplosiva sparata da un agente, a Stéphanie viene affidato il compito di ricostruire l’accaduto e identificare i responsabili. Quello che all’inizio sembra un caso come tanti, classificato con il numero 137, si trasforma ben presto in qualcosa di personale. Un dettaglio insignificante risveglia in lei ricordi legati alle sue origini. Il dossier non è più un fascicolo, ma una ferita aperta, una sfida morale che scuote il suo ruolo, la sua etica, e la sua idea di giustizia.

Recensione: Dossier 137 affronta un tema quanto mai attuale: la violenza della polizia, il potere dello Stato e le contraddizioni del sistema giudiziario. Moll sceglie di raccontare questi eventi non dal punto di vista delle vittime, ma da quello di chi è chiamato a indagare sui propri colleghi. Una prospettiva interna, ambigua, emotivamente coinvolgente.

Il film si ispira a fatti realmente accaduti: l’8 dicembre 2018, durante una manifestazione dei gilet gialli a Parigi, un ragazzo di 20 anni fu colpito alla testa da un proiettile sparato da un agente di un’unità speciale. L’episodio sollevò forti polemiche, spinse all’apertura di un’indagine interna e divenne simbolo di un sistema di impunità.

Stéphanie fa questo lavoro da vent’anni: interrogare, ricostruire, stabilire responsabilità. Con rigore e onestà. Ma stavolta qualcosa cambia. Il ragazzo colpito proviene dallo stesso villaggio in cui è nata. L’indagine diventa un viaggio anche interiore, che spinge la protagonista a mettere in discussione la propria neutralità.

La prima parte del film si costruisce su una sequenza di interrogatori freddi, burocratici, che restituiscono bene la reticenza e la compattezza del corpo di polizia. I colleghi si coprono, si proteggono, rifiutano ogni responsabilità. Il ritmo è volutamente compassato, quasi asettico. Potrebbe risultare distante, ma a sostenere tutto c’è la presenza magnetica di Léa Drucker: sguardo teso, postura ferma, capacità di trasmettere dubbi, dolore, decisione senza mai alzare la voce. Il suo volto è una maschera di rigore che si incrina lentamente.

Il punto di svolta arriva con il ritrovamento di un video decisivo. Stéphanie cambia postura, diventa più determinata. Il film vira dal legal drama al thriller etico: Cosa succede quando la verità contrasta con gli interessi istituzionali?

© Fanny de Gouville // Modds

Il finale, amaro e realistico, lascia poco spazio alla speranza. Nonostante le prove, le immagini, le testimonianze, la verità non basta. Troppi cavilli, troppa burocrazia, troppa paura. E così, come spesso accade, non pagano i colpevoli ma chi ha avuto il coraggio di cercare giustizia. Stéphanie viene messa sotto accusa per presunta negligenza. Un capro espiatorio, sacrificato in nome della Ragion di Stato.

Conclusione

Dossier 137 è un film necessario, sobrio, rigoroso. Non cede mai alla retorica o all’enfasi, ma costruisce un racconto teso e credibile sul sistema di controllo e le sue crepe. Dominik Moll sceglie una regia asciutta, mai compiaciuta, e punta tutto sulla forza narrativa degli sguardi, dei silenzi, dei dubbi.

Un’opera che si inserisce con coerenza nel dibattito europeo sulla violenza istituzionale e che invita a riflettere su chi paga davvero il prezzo della verità.

SIRAT di Oliver LAXE

Un film che parla di padri e figli, di fughe e ritorni

Trama: Dopo la scomparsa della figlia durante un rave in Marocco, Luis (Sergi López), un uomo dal passato opaco e dai modi rigidi, parte con il figlio Esteban alla sua ricerca. Da mesi non hanno sue notizie. Seguendo tracce vaghe, si ritrovano a vivere in macchina, inseguendo le carovane dei rave. Ma quello che inizia come un viaggio per ritrovare Mar, si trasforma presto in qualcosa di più complesso, forse anche più pericoloso.

Recensione: Il film si apre nel bel mezzo di un rave nel deserto. Bassline sparata, volti sfocati, musica a palla. Una scena che sembra non avere inizio né fine. In questo magma visivo e sonoro, si muovono Luis e suo figlio. Mostrano la foto di Mar, chiedono in giro. L’overture è lunga, quasi ipnotica. Laxe ci butta dentro senza bussola. E funziona.

Scopriamo che Luis ed Esteban dormono in macchina col cane. È da mesi che cercano Mar. Seguono il movimento rave da un raduno all’altro. In apparenza, niente di più lontano di un padre borghese e disilluso e questi ragazzi che vivono per ballare nel nulla. Ma Sirat riesce a tenere insieme due mondi che si sfiorano con diffidenza, senza forzature.

La musica finisce bruscamente quando arrivano i militari. Ordine di sgombero. Scene che ricordano tanti altri scontri di piazza, solo che qui siamo in mezzo al deserto. Due pullman non si fermano e scappano. Esteban convince Luis a seguirli con la loro utilitaria. Inizia così un viaggio assurdo, polveroso, pieno di deviazioni e incontri, dentro una carovana che non è solo nomade, ma anche ideologica.

In questa prima parte, Laxe ci fa entrare dentro il gruppo. Piccoli gesti, dialoghi smozzicati, silenzi. Scopriamo che Mar non è stata rapita. Se n’è andata. Ha scelto. Forse per allontanarsi da un padre troppo severo, forse per respirare. Sergi López regge il film con una recitazione interna, asciutta, ma mai vuota.

Poi il film cambia. All’improvviso. Il secondo rave non c’è. Il luogo è deserto, letteralmente. Al posto delle casse: lanciarazzi. Sirat diventa un’altra cosa. Un film sull’illusione? Sull’errore? Sulla morte? Non lo sappiamo bene, e forse non importa. Alcuni personaggi spariscono, altri muoiono. La carovana si sfalda. Il deserto li inghiotte. Lo spettatore fatica a ritrovare il filo, ma è lo stesso viaggio di Luis: senza coordinate.

L’ultima svolta arriva con un pulmino di migranti. Luis e gli altri superstiti vengono caricati a bordo. Si passa da chi fugge per scelta (i ravers) a chi fugge per sopravvivere. Il confine è sottile, ma reale.

Conclusione

Sirat non è un film per tutti. È lento, a tratti disorientante, volutamente incompleto. Ma ha qualcosa di sincero, di viscerale. Non ti dice cosa pensare, ti ci butta dentro. Sta a te decidere se seguirlo o lasciarlo lì.

Un film che parla di padri e figli, di fughe e ritorni, ma anche di quelle comunità effimere che si costruiscono fuori da tutto. Magari anche solo per una notte, con la musica nelle vene e nessun domani garantito.

Vittorio De Agrò (RS)

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