
Lo sguardo critico di Vittorio De Agrò dalla Croisette
(da Cannes Luigi Noera e Vittorio De Agrò (RS) con la gentile collaborazione di Eleonora Ono – le foto sono pubblicate per gentile concessione del Festival di Cannes)
La Croisette stravede per Tom Cruise!
Nostalgia, adrenalina e celebrazione dell’uomo sull’algoritmo: ecco i tre ingredienti principali di questa ultima (forse) avventura dell’attore sempre verde
Mentre le due sezioni indipendenti inaugurano con due perle
Fuori Concorso
MISSION: IMPOSSIBLE – THE FINAL RECKONING di Christopher MCQUARRIE
Trama:Mission: Impossible – The Final Reckoning è l’ottavo capitolo della celebre saga action con protagonista Ethan Hunt (Tom Cruise), l’agente segreto più instancabile e acrobatico del grande schermo.
In questa nuova missione, Ethan e il suo team devono rintracciare due chiavi che attivano un’arma potentissima: un’intelligenza artificiale chiamata Entità, capace di causare il caos globale — dalla manipolazione delle banche internazionali al collasso delle infrastrutture mondiali.
A ostacolarli c’è Gabriel (Esai Morales), un nemico spietato legato al passato di Ethan, pronto anche lui a mettere le mani sulle chiavi.
La corsa contro il tempo si snoda tra continenti, treni in corsa e aerei pronti al decollo, in un crescendo di tensione e acrobazie. Ma lo scontro finale tra Ethan e Gabriel non sarà l’ultimo…
Recensione: Speriamo davvero che The Final Reckoning sia stata l’ultima missione impossibile di Ethan Hunt. Perché, dopo quello che Tom Cruise fa in queste 2 ore e 45 minuti, l’unico prossimo passo possibile è lo spazio profondo. Verso l’universo e oltre. Buzz Lightyear permettendo.
Certo, lo so benissimo: milioni di fan adoranti della saga e del suo protagonista aspettavano da mesi questo gran finale. E anch’io, sulla Croisette, ho visto giornalisti e cinefili con gli occhi a cuoricino mentre attendevano l’entrata trionfale del loro eroe.
Il film riparte esattamente dove ci aveva lasciato l’episodio precedente. L’Entità – questa minacciosa IA fuori controllo – ha conquistato il web e si prepara a impadronirsi dei codici nucleari mondiali. Il suo piano? Semplice: distruggere tutto e ripartire da zero, dando vita a un nuovo ordine mondiale controllato da lei stessa e da Gabriel, il suo scagnozzo umano.
Le grandi potenze sono paralizzate, il panico serpeggia. La popolazione è divisa tra chi teme la fine e chi, invece, sogna il reset. E chi potrà mai salvare il mondo? Ma Ethan Hunt, naturalmente, pronto a sfidare qualunque legge della fisica – e della sceneggiatura – pur di fermare l’inevitabile.
La salvezza? Dentro un sottomarino russo affondato tra i ghiacci del Polo Nord. Ovviamente.
Niente spoiler, ma una piccola anticipazione possiamo concedercela: il premio dopo la risalita dalle acque gelide è passare giorni interi in una camera iperbarica insieme alla brava (e affascinante) Hayley Atwell.
Il film, va detto, è un concentrato puro di spettacolo. Azione continua, inseguimenti adrenalinici, location spettacolari che vanno dal Sudafrica al Polo Nord passando per Londra. C’è tutto quello che i fan si aspettano.
La formula vincente della saga è intatta, come un rituale che funziona e non si discute.
Però…
Se sei uno spettatore qualsiasi, uno con i piedi per terra e un po’ di spirito critico, non potrai non notare come tutta la trama sia al servizio di un unico scopo: esaltare Tom Cruise. Tutto ruota attorno al suo corpo, al suo ego, al suo atletismo eterno. Più che Mission: Impossible, a volte sembra una celebrazione continua del “Tomismo”.
Detto questo, c’è anche un’anima malinconica, quasi affettuosa, in questo episodio.
Un tono amarcord, con flashback, sacrifici eroici, sguardi al passato della saga e riflessioni sul futuro. Perché, in fondo, The Final Reckoning è anche una lettera d’amore a un tipo di cinema che non esiste più. E un invito a non dimenticare che il destino – anche nell’era delle macchine – è ancora una scelta umana.
Uomo contro intelligenza artificiale: uno scenario inquietante, ma quanto mai attuale. E se anche un blockbuster come Mission: Impossible si prende la briga di lanciare un segnale, ben venga.
Nostalgia, adrenalina e celebrazione dell’uomo sull’algoritmo: ecco i tre ingredienti principali di questa ultima (forse) avventura. Una sceneggiatura costruita per divertire Tom Cruise e, con lui, tutto il pubblico in sala.
E a fine corsa, mentre le luci si riaccendono, una domanda resta sospesa nell’aria:
dopo The Final Reckoning, a chi chiederà Tom la sua prossima missione? All’intelligenza artificiale, ovviamente.
SdC – Special screenings
Film d’apertura : L’intérêt d’Adam (Adam’s Interest) di Laura Wandel
Trama: A seguito di una sentenza del tribunale, Adam, un bambino di quattro anni, viene ricoverato in ospedale per malnutrizione. Lucy, caposala del reparto pediatrico, decide di permettere alla madre del piccolo di rimanere oltre l’orario di visita imposto dalle autorità.
Ma quando la donna, ancora una volta, si rifiuta di lasciare il letto del figlio, la situazione si complica. Lucy, spinta dal desiderio di fare la cosa giusta, cercherà in ogni modo di aiutare questa giovane madre in difficoltà, mettendo in discussione i confini tra legge e umanità.
Recensione: Fino a ieri pensavo che il reparto oncologico fosse il luogo più duro e straziante di un ospedale. Dopo aver visto Adam’s Sake, film d’apertura della 67ª Settimana Internazionale della Critica, ho cambiato idea.
Il vero inferno è il reparto pediatrico. Un luogo dove la sofferenza si sdoppia: quella del bambino e quella del genitore. E per chi ci lavora – medici, infermieri, operatori – ogni giorno è una sfida emotiva da affrontare in silenzio, cercando di proteggersi da un dolore che divora.
Lucy è la caposala. Una professionista competente, empatica e affidabile. Ma anche una donna capace di tenere in equilibrio l’efficienza e la sensibilità. Si prende cura dei suoi piccoli pazienti con dedizione e rispetto, gestendo al tempo stesso le fragilità emotive dei genitori.
È un punto di riferimento solido in un reparto dove la paura è costante.
Léa Drucker è perfetta in questo ruolo. Misurata, intensa, sempre credibile. La sua interpretazione è asciutta ma carica di sottotesto: dietro la maschera dell’efficienza si intravedono compassione, coinvolgimento, e un dolore personale che riaffiora piano piano.
Altrettanto convincente è Anamaria Vartolomei, che interpreta Rebecca, la madre di Adam.
La sua è una performance profonda, istintiva, lacerante. Alterna momenti di estrema vulnerabilità a scatti di rabbia e disperazione autentici, senza mai cadere nella retorica o nell’eccesso.
Con il giusto utilizzo del corpo l’attrice ci restituisce tutta la fragilità di una ragazza impreparata a fare la madre, ma disperata all’idea di perdere il proprio figlio.
La Vartolomei conferma qui di essere una delle attrici europee più promettenti della sua generazione.
Adam è un bambino solo, malnutrito, pieno di fratture non causate da violenza, ma da negligenza e ignoranza. I servizi sociali lo allontanano dalla madre, limitando i contatti. Una misura forse corretta sulla carta, ma che né un bambino né una madre possono accettare senza conseguenze.
È davvero questa la cosa giusta? Cosa significa “il bene di Adam”?
Da questa domanda parte il film di Laura Wandel. Adam’s Sake è una riflessione lucida e straziante sul conflitto tra legge e compassione, tra burocrazia e umanità. Lucy, madre single e donna che conosce il dolore da vicino, si interroga e agisce.
Il film si sviluppa tutto su questa tensione: proteggere il minore con regole rigide o aiutarlo lasciando spazio al cuore?
Girato con toni sobri, trattenuti, il film non rinuncia mai all’intensità emotiva. Il pathos cresce scena dopo scena. Lo spettatore si sente coinvolto nel legame a tre tra Adam, la madre e Lucy, sperando in una via d’uscita che possa garantire al bambino amore, sicurezza e futuro.
I colpi di scena non mancano, così come le scelte difficili. Lucy, con la sua determinazione silenziosa, non si piega al gelo della burocrazia. Il finale, agrodolce, ci regala un attimo di respiro dopo una visione intensa, quasi soffocante.
Se ci fossero più Lucy negli ospedali pubblici, forse la paura e la sofferenza sarebbero meno dure da sopportare.
Vittorio De Agrò (RS)