#CANNES78 – 13/24 maggio 2025 SPECIALE #6 (DAY2)

Lo sguardo critico di Vittorio De Agrò dal Palais

(da Cannes Luigi Noera e Vittorio De Agrò (RS) con la gentile collaborazione di Eleonora Ono – le foto sono pubblicate per gentile concessione del Festival di Cannes)

#CANNES78 entra nel vivo con due film nel Concorso ed una perla nel film inaugurale di UCR

COMPETITION

SOUND OF FALLING di Mascha SCHILINSKI

Trama: Ambientato in una remota fattoria dell’Altmark, regione rurale a ovest di Berlino, Sound of Falling racconta le storie di quattro giovani donne – Alma, Angelika, Leinka e Lia – vissute in epoche diverse, ma unite da un legame invisibile fatto di memorie, traumi e desideri rimossi.

Nel corso di un secolo, la casa diventa teatro silenzioso di eventi misteriosi, dolori tramandati e scelte familiari dolorose. La linearità temporale si sfalda, mentre passato e presente si confondono in un ciclo eterno. In questo scenario sospeso tra sogno e realtà, il film restituisce un ritratto delicato e frammentato del femminile, tra appartenenza e alienazione.

Recensione: Sound of Falling ha aperto ufficialmente il concorso principale del Festival di Cannes 2025, suscitando inizialmente la mia curiosità grazie a una sinossi suggestiva e a una cornice visiva affascinante.

La prima mezz’ora promette bene, evocando atmosfere oniriche che ricordano vagamente The Others, trasposte però in chiave bucolica. Tuttavia, l’illusione dura poco. Il film si perde rapidamente in un labirinto narrativo fatto di sottotrame frammentarie, difficile da seguire e ancor più da decifrare.

Il ritmo lento, quasi statico, richiede uno sforzo considerevole per restare coinvolti. La struttura a matrioska, in cui i collegamenti tra le protagoniste vanno ricostruiti quasi esclusivamente attraverso fotografie in bianco e nero, risulta interessante sulla carta ma poco efficace sul piano narrativo.

La fattoria, centro simbolico e fisico del film, è il luogo dove si condensano generazioni di dolori e ricordi: un microcosmo che riflette la fragilità, i desideri e i conflitti familiari. Il film vuole essere un affresco sul ruolo della donna, sulla memoria collettiva e sull’eredità emotiva, ma spesso scivola in un esercizio di stile troppo autoreferenziale.

Nonostante una fotografia curata e una regia che dimostra sensibilità, Sound of Falling appare più come un film da festival che un’opera in grado di coinvolgere un pubblico più ampio. La durata eccessiva (2 ore e 40 minuti) non aiuta: appesantisce ulteriormente una narrazione già di per sé complessa e poco accessibile.

In sintesi, Sound of Falling è un esperimento visivo e tematico ambizioso, ma poco riuscito dal punto di vista dell’equilibrio narrativo. Usciti dalla sala, il vero “suono della caduta” è forse quello di chi, come parte del pubblico, si è svegliato solo con i titoli di coda.

TWO PROSECUTORS di Sergei LOZNITSA, tratto dall’omonimo romanzo di Georgy Demidov.

Trama:Unione Sovietica, 1937. Un giovane procuratore si imbatte in una lettera scritta da un prigioniero politico. Convinto che quell’uomo sia vittima della corruzione dell’NKVD, decide di chiedere giustizia al Procuratore Generale. Inizia così una lenta e pericolosa discesa negli ingranaggi oscuri del sistema sovietico.

Recensione: “Di solito la sostanza conta più della forma.”

Un principio valido nella vita, e spesso anche nel cinema.

Ma Two Prosecutors è un’eccezione potente e necessaria: qui è la forma stessa a farsi sostanza. È attraverso la lentezza, la rigidità, l’apparente immobilità delle inquadrature che Sergei Loznitsa riesce a raccontare l’orrore del regime stalinista.

Ogni scelta stilistica – i silenzi, i campi lunghi statici, il tempo che non scorre – diventa parte integrante del racconto. Non c’è compiacimento formale: la regia è severa, asciutta, documentaria. Come nei suoi lavori non di finzione, Loznitsa ci costringe a restare lì, a guardare, senza sconti.

Il film è tratto da un racconto di Georgy Demidov, scrittore e fisico dissidente, sopravvissuto a 14 anni di gulag. La sua esperienza personale rende il materiale narrativo ancora più crudele, concreto, vero.

L’inizio del film è potente e disturbante: uomini e donne in catene, schiacciati dal lavoro forzato, torturati, spinti verso l’annullamento. Le lettere di denuncia scritte dai detenuti vengono bruciate, eliminate senza lasciare traccia. Ma una – scritta con il sangue – sopravvive. E finisce, misteriosamente, sulla scrivania sbagliata.

Il giovane procuratore Kornyev, idealista e onesto, viene incaricato di indagare. Aleksandr Kuznetsov lo interpreta con grande rigore e misura. Kornyev si reca nel carcere, supera pressioni e umiliazioni, e riesce a incontrare il detenuto autore della lettera: è Stepniak, un celebre intellettuale che lui stesso aveva ascoltato anni prima all’università.

Stepniak lo avverte: se vuole fare il proprio dovere, deve sapere che finirà come lui – prigioniero, torturato, forse ucciso.

Da quel momento in poi, il film si muove verso una fine annunciata, inesorabile. Lo spettatore sa già come andrà a finire. Ma per Loznitsa il punto non è “cosa” succede, ma “come”: lo scopo è mostrare tutti i passaggi, la progressione burocratica del male.

L’orrore è meccanizzato, legalizzato, trasformato in procedura. Gli assassinii diventano atti d’ufficio, i carnefici sono funzionari ligi al dovere. È la burocrazia – e non più l’ideologia – a trasformare il sistema in un incubo.

Loznitsa denuncia con forza il tradimento dello spirito rivoluzionario: i veri “nemici del popolo” non sono i perseguitati, ma i persecutori – Stalin e i suoi fedelissimi, tenuti al guinzaglio dal terrore di finire nella lista nera.

Two Prosecutors è un film durissimo, angosciante, spietato. Una rappresentazione glaciale ma lucidissima della “banalità del male”, diversa da quella classica, ma altrettanto disturbante.

Lunghi silenzi, ripetizioni burocratiche, rituali grotteschi: tutto serve a immergerci in una realtà deformata e mortale.

Certo, il film è lungo – oltre due ore – e il ritmo è pressoché assente. Loznitsa avrebbe potuto tagliare almeno 30 minuti senza perdere forza né coerenza. Così com’è, risulta faticoso, a tratti estenuante. Ma forse anche questa fatica è parte dell’esperienza voluta: farci vivere il peso, la claustrofobia, la rassegnazione.

Che piaccia o no, Two Prosecutors è un’opera necessaria, scomoda, che lascia il segno. Un film politico nel senso più autentico: non solo denuncia, ma interrogazione.

Loznitsa ci mostra – con rigore, con dolore – come l’ideologia, una volta corrotta dalla paura e dalla sete di potere, possa trasformare la giustizia e finaco la burocrazia in strumenti di repressione mortale.

UN CERTAIN REGARD

PROMISED SKY di Erige SEHIRI (Film d’apertura)

Trama: Marie, pastora evangelica ivoriana ed ex giornalista, vive da dieci anni in Tunisia. La sua casa diventa un rifugio per due giovani donne: Naney, madre in fuga dal passato e in cerca di un futuro migliore, e Jolie, studentessa determinata a riscattarsi per sé e per la sua famiglia. L’arrivo improvviso di Kenza, una bambina sopravvissuta a un naufragio, sconvolge gli equilibri di questo fragile microcosmo. In un contesto sociale teso, tra precarietà e sospetti, la solidarietà tra le tre donne viene messa alla prova, facendo emergere tanto la loro forza quanto le loro vulnerabilità.

Recensione: Accogliere una bambina che ha perso tutto non è semplice. Prendersene cura, rassicurarla, proteggerla… richiede più di un tetto: ci vogliono amore, fede, istinto materno. O almeno, la volontà di provarci.

Kenza, la bambina che irrompe nella vita di Marie, Jolie e Naney, non è solo un’altra bocca da sfamare: è un catalizzatore. La sua innocenza smuove qualcosa in ognuna delle tre donne, costringendole a guardarsi dentro, a confrontarsi con le proprie scelte, paure e desideri.

Marie ha smesso di fare la giornalista dopo la morte tragica del figlio e ha abbracciato la fede diventando pastora della “Chiesa della Resistenza”. La sua missione è accogliere, proteggere, dare rifugio. Ma anche lei, dietro il sorriso e la forza apparente, nasconde un dolore che non ha mai davvero lasciato andare.

Jolie, 24 anni, studia ingegneria. È brillante, ambiziosa, piena di vita: balla, si diverte, flirta. Vuole tutto, subito. Ma la realtà tunisina le ricorda presto che il confine tra sogno e frustrazione è sottile, soprattutto quando ti trovi a vivere in un paese che non ti appartiene.

Naney è la più complessa. Determinata, orgogliosa, affamata di riscatto. Vuole guadagnare abbastanza da riportare a sé il figlio lasciato in Camerun. Ma le scorciatoie che sceglie la portano su una strada pericolosa. Quando Marie scopre i suoi traffici, la caccia di casa. Naney si ritrova sola, tradita da chi pensava amica.

La tensione tra le tre cresce. I contrasti esplodono. I traumi emergono. Nessuna è più quella di prima.

Marie, che sembrava la più salda, capisce di non essere pronta a mettere da parte il proprio dolore, neanche per il bene di Kenza. Jolie, dopo un arresto ingiusto da parte della polizia tunisina, si scontra con la realtà dura del razzismo e della precarietà. Naney tocca il fondo, ma forse proprio lì ritrova un barlume di verità.

Promis le ciel, film d’apertura della sezione Un Certain Regard di Cannes 2025, è una storia potente di amicizia, redenzione e maternità in un contesto sociale instabile. Mostra come anche gli spazi più fragili possano diventare luoghi di resistenza, cura e rinascita.

Il film affronta con tatto e realismo anche la questione dei pastori evangelici, accusati ingiustamente di favorire l’immigrazione clandestina, sottolineando quanto sia sottile il confine tra solidarietà e sospetto.

Aïssa Maïga, Laetitia Ky e Deborah Christelle Lobe Naney sono magnetiche. Portano in scena tre personaggi profondamente diversi con intensità, umanità e carisma. La loro alchimia, non solo attoriale ma anche emotiva, rende le relazioni tra i personaggi credibili e coinvolgenti.

Erige Sehiri firma una regia essenziale, delicata, mai invadente. Riesce a tenere insieme dolore e speranza, fede e disillusione, senza forzature. Trova il tono giusto, intimo e universale, per raccontare un mondo fatto di piccole ferite e grandi gesti di amore.

Vittorio De Agrò (RS)

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