
Alle battute finali il Festival sul Cinema Africano Asiatico e America Latina – dalla nostra inviata Eleonora Ono
Sono tanti i titoli visti sulla piattaforma di #MyMovies emozionanti!
Ecco una panoramica e le impressioni sugli ultimi film programmati sulla piattaforma #MyMovies:
#Famiglia di Christian Carmosino
Missa, Adama, Nafissa e Irene frequentano il Master Agrinomia all’Università di Ouagadougou in Burkina Faso, un programma di alta formazione professionale sull’innovazione e lo sviluppo rurale in partenariato con l’Università Roma Tre e con il sostegno dell’AICS.
Avete mai visto un sorriso così smagliante, un viso che grida “nonostante tutto”, una danza così viva?
Il tutto è racchiuso in questa pellicola, che racconta e mostra un’Africa inedita e dinamica, fatta di tenace lotta quotidiana, per cambiare e migliorare la propria condizione di vita, oltre a quella della loro famiglia, senza tralasciare le persone all’interno della comunità.
La fotografia è colma di variazioni e sfumature a livello cromatico: i costumi possiedono alcune sfumature interessanti, che rendono il rullo molto luminoso, brioso e coinvolgente.
Osservando l’opera cinematografica, si respira questa necessità di rinnovare, di far progredire questi luoghi desolati. La popolazione è molto povera e, nonostante ciò, gode con umiltà delle piccole gioie della vita. Questo atteggiamento lascia senza parole il pubblico. In ogni modo, la voglia di sorridere, la resilienza e forza d’animo fa riflettere.
La musica che accompagna la storia, è sempre di grande auspicio, aiuto ed ispirazione, poiché rallegra e sensibilizza quello stile di vita faticoso in cui vivono.
L’istruzione e la povertà sono due parole che non sono mai andate d’accordo. Infatti, i protagonisti non si tirano indietro ed investono sul proprio futuro, anche se con molta fatica.
Come è possibile, che ancora oggi, nel terzo millennio, una parte della popolazione del globo è costretta a vivere in una miseria simile? Quindi bisogna pensare che, se sei ricco o benestante, si è cresciuti nella parte “fortunata” del mondo?
Riflessioni che sorgono spontanee dopo immagini similari, anche perché qualsiasi essere umano è meritevole di vivere in un posto dignitoso e nobile.
Dunque, che ciò possa essere uno spunto per migliorare!
#ListenToTheVoices (Kouté Vwa) di Maxime Jean-Baptiste
La pellicola apre le danze con un filmato di repertorio, in cui vi è una folla unita e commossa per onorare la memoria di un giovane morto improvvisamente, simbolo della storia recente della Guyana, fatta di violenza sociale e di strada, ma anche della forza di una comunità affiatata
Nel qui ed ora, Melrick è un giovane adolescente che vive in Francia ma ogni estate torna in Guyana francese dalla nonna, riscoprendo le proprie radici e la tradizione musicale del carnevale. Tuttavia, un’ombra tragica pesa sulla famiglia. In un territorio d’oltremare francese segnato da una storia di schiavismo e da persistenti violenze, attraverso un racconto che unisce realtà e finzione, il protagonista intraprende un insidioso cammino di crescita, tra consapevolezza e perdono.
Tale insegnamento deriva proprio dalla nonna, che in un piccolo viaggio in macchina gli racconta un episodio accaduto e Melrick segue il tutto con grande interesse, tanto da capire molto velocemente il filo del discorso.
Il ragazzo è alla ricerca di ricordi, quelli dolci e quelli strazianti, che sicuramente hanno motivato questo esilio. Il ricordo di quella notte tra il 10 e l’11 marzo 2012. “Sono passati 10 anni, è come se fosse ieri”, confida Yannick, amico di Lucas, il giovane assassinato, che è perseguitato dalla sua promessa di vendetta. “Sto rivedendo tutto. In continuazione”. La macchia di questa tragedia – e di altre – incombe sul complesso residenziale di Mont-Lucas.
D’altronde, la connessione con la musica lo salverà. Il ritmo è quello delle percussioni del gruppo Mayouri Tchô Nèg, dove assume il ruolo lasciato vacante dallo zio Lucas.
Il rullo oscilla tra fiction e documentario, essendo allo stesso tempo un racconto di formazione che segue la traiettoria di un ragazzo che cerca di costruire sé stesso attraverso il ricordo di uno zio sacrificato sull’altare della violenza endemica che affligge le strade, un’esplorazione di questa memoria con sfumature oniriche e una riflessione sulla violenza ereditata – un’eredità familiare, ma anche storica e coloniale. “Listen to the Voices” è un’opera prima promettente, con immagini superbe che sublimano i corpi ancor più dei paesaggi presenti.
Le immagini evidenziano un territorio sofferente, ma colmo di persone che lo mantengono in vita e ne raccontano le vicissitudini.
Tuttavia, l’opera esplora soluzioni più moderne nei confronti del trauma e, nel suo caso, sedute di terapia tra il terapeuta e Yannick in cui vengono scatenate emozioni crude e represse. Nel caso del protagonista, le conversazioni tra lui e la nonna gli offrono una prospettiva sui temi della vendetta e del futuro. Da giovane regista, Maxime è interessato al divario generazionale e agli sbocchi per affrontare i nostri problemi: tradizionali (canto e danza) e moderni (terapia della parola).
Il linguaggio visivo del direttore artistico suggerisce le numerose connessioni tra Melvick e Yannick.
In ogni modo, si evince un continuo viaggio e movimento che ispira speranza la giusta alternanza di disperazione. Potrebbe essere così, il passato dei due sarà sempre lì, ma dopo aver ascoltato le voci, Maxime ci mostra un futuro ristoratore.
Melvick si unisce alle prove di una band dove la comunità lo accoglie a braccia aperte. Mentre la telecamera si avvicina a singoli strumenti come trombe e tamburi (la maggior parte sono fatti in casa con scarti come bidoni di plastica e cinture di sicurezza come supporti), la telecamera inquadra il volto gioioso di Melvick mentre suona, a significare un profondo senso di armonia. Attraverso queste performance, la poeticità nei ritmi tra l’immagine e il suono è tremendamente commovente.
Inoltre, la connessione che si crea tra nonna e nipote è la ciliegina sulla torta dell’opera, poiché attraverso una voce dalla tonalità pacata e dolce, la signora riesce ad arrivare al nocciolo della questione senza troppi svolazzi, arrivando dritta al concetto. Si instaura un rapporto di fiducia, il che non è scontato.
Dunque, l’abbraccio tra loro due davanti al mare blu, rende il tutto romantico e poetico.
#MaCryOfSilence di The Maw Naing
“Sentivo solo un sapore amaro. Nella cecità di una notte buia come la pece mi sono chiesta: stiamo uscendo dalle tenebre? O è proprio lì che siamo diretti?”
Questo è il Primo film di finzione che racconta l’attuale realtà socio-politica del Myanmar. Il tutto è piuttosto disarmante dato che, il fatto di essere nel terzo millennio, dovrebbe portare l’umanità a fare una riflessione più grande per un futuro migliore. Tuttavia, è evidente che queste situazioni sono all’ordine del giorno e che, al momento, non sembra esserci una visione differente.
In ogni modo, la dignità dell’uomo non può essere spazzata via in un secondo, a causa di un datore di lavoro che non rispetta i propri dipendenti. Tutto ciò è impensabile. Bisognerebbe raccontare sempre di più questi fatti, perché non vi è senso di colpa che possa trattenere una tale testimonianza.
Nel rullo si evince come, Mi-Thet, giovane operaia birmana di una fabbrica tessile, decide di aderire a uno sciopero, ma la violenta repressione della polizia riporta alla luce un trauma del passato.
Qui, sotto un supervisore spietato, subisce abusi e mesi di mancato pagamento. Decisa a lottare, aderisce a uno sciopero organizzato dalla collega Nyein-Nyein. Infatti, la vera forza è dettata dall’unione delle lavoratrici che – pian piano – iniziano a far squadra sentendosi ancora più forti, l’una fianco all’altra. Chiaramente questa sorellanza la si deve vivere, sentire e percepire, in modo da non scendere a subdoli ricatti morali mossi dai superiori malvagi e meschini.
L’aggressione da parte del datore di lavoro nei confronti della protagonista è uno dei momenti di maggiore energia e tensione. Tant’è che Mi-Thet si ribella alle minacce e non cede ai suoi meschini ricatti. Il lavoro merita di essere pagato e soprattutto dovrebbe nobilitare l’essere umano e non renderlo schiavo.
“Nessuno si riprende un cane che attacca il proprio padrone”
Nel terzio millennio si riuscirà a risolvere questa grande problematica sociale?
La fotografia è nitida, viva e colma di una tavolozza di colori pastello, andando anche a sottolineare dei dettagli non trascurabili per la battaglia per difendere i diritti sul lavoro e non solo.
#TheSETTLEMENT di Mohamed Rashad
Dopo la morte di un uomo in un incidente mortale sul lavoro, l’unica compensazione offerta alla famiglia è la possibilità per i suoi due figli, Hossam (23) e Maro (12), di essere impiegati nella stessa fabbrica, fianco a fianco con l’uomo responsabile della morte del padre.
La pellicola scorre piuttosto lentamente: di solito non è un punto a sfavore ma, in questo caso, questa calma tende ad appiattire un po’ troppo la storia, rendendo statico ed apatico il plot twist.
Ad ogni modo, la riflessione vien guardando, e le ingiustizie vengono a galla.
La verità della dinamica della morte del padre dei due ragazzi rimane velatamente un mistero, forse è mancante un tassello che unisce vari punti della trama, perdendosi nella comunicazione non verbale del “non detto”.
Quanto la mente dell’essere umano può essere manipolata? In questo caso Hossam è stata palesemente incastrato e non c’è nessuno che si espone per salvarlo, oltre che il fratello minore.
Allora la riflessione sorge spontanea: nessuno si salva da solo, ma se – anche – le persone fidate si tirano indietro in un momento di estrema difficoltà, come puoi credere nell’altro?
I valori come l’amicizia, la solidarietà, la fedeltà dovrebbero rientrare a far parte del quotidiano.
In questo caso, fortunatamente la fratellanza è stata estremamente necessaria a salvare più di una vita.
Dal punto di vista della direzione artistica, la fotografia è poco satura, nitida, e con poco contrasto.
La selezione cromatica appartiene a colori pacati come se il regista non avesse voluto calcare la mano sui colori, altrimenti l’attenzione si sarebbe spostata altrove.
Eleonora Ono