SPECIALE #VENEZIA78 #10 – 1/11SETTEMBRE 2021: (DAY 6) La Caja di Lorenzo Vigas – la recensione di Marina Pavido

(da Venezia Luigi Noera con la gentile collaborazione di Marina Pavido e Annamaria Stramondo e dalla sala WEB Maria Vittoria Battaglia – Le foto sono pubblicate per gentile concessione della Biennale)

La Caja è l’ultimo capitolo di una trilogia dedicata alla paternità in America Latina

Presentato in concorso a Venezia78, La Caja è l’ultimo lungometraggio di Lorenzo Vigas, già vincitore del Leone d’Oro nel 2015 per Desde Allá.

La Caja è l’ultimo capitolo di una trilogia dedicata alla paternità in America Latina (dopo il cortometraggio Los elefantes nunca olvidan e  Desde Allá). E così, anche in questa occasione, il cineasta messicano ha voluto mettere in scena una storia del tutto singolare, per una realtà assai comune in Sud America, ma che, di fatto, sono davvero in pochi a conoscere al di fuori dei confini nazionali.

Hatzin (Hatzin Navarrete) è ancora adolescente e vive con sua nonna a Città del Messico. Un giorno il ragazzo intraprende da solo un viaggio, al fine di recuperare i resti di suo padre, trovati in una fossa comune a nord del Paese. Il giovane, tuttavia, durante il viaggio di ritorno, scorgerà un uomo che somiglia incredibilmente al suo stesso genitore e deciderà di fermarsi a vivere e a lavorare insieme a lui. Sarà davvero tutto così semplice?

La situazione di Hatzin è, dunque, quella di molti altri cittadini messicani che non hanno avuto modo di conoscere i propri genitori e sono cresciuti praticamente senza padre. Questa costante ricerca della figura paterna diventa, dunque, il filo conduttore del presente La Caja. Hatzin non accetta che suo padre non ci sia più. Pur essendo stato costretto a diventare adulto prima del tempo e a nascondere le proprie emozioni (interessante il suo continuo tirare calci, in apertura del film, alla parete del bagno del pullman su cui sta viaggiando), egli ha comunque bisogno di una figura di riferimento.

L’alchimia che si viene a creare, dunque, tra lui e il suo burbero datore di lavoro gioca, di conseguenza, un ruolo di grande responsabilità all’interno del lungometraggio. Ed è proprio qui che sorgono i primi (e più importanti) problemi. Durante la visione, infatti, abbiamo immediatamente l’impressione che tutto si svolga secondo un copione prestabilito. Il rapporto inizialmente problematico tra i due protagonisti, il “rifiuto” di Hatzin da parte dell’uomo e il naturale affetto che nasce lentamente sono sì dinamiche che se ben gestite possono dar vita a qualcosa di parecchio interessante, ma anche soluzioni già più e più volte sfruttate. Soluzioni che in questa occasione risultano fin da subito pericolosamente prevedibili. Come, d’altronde, l’intera trama.

Ed è proprio questo che del film di Vigas (ma, volendo essere “cattivi”, del suo cinema in generale) proprio non convince: l’intento di dar vita a qualcosa di “grande, che, tuttavia, il volo non lo spicca mai. Malgrado spunti indubbiamente interessanti (tra cui, su tutti, proprio la location in cui il lungometraggio è ambientato: un Messico caldo, assolato, che con i suoi grandi spazi aperti sta a trasmettere quasi un senso di agorafobia e di spaesamento).

Marina Pavido

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