SPECIAL # VENICE77 #12 – 2/12 SEPTEMBER 2020: (DAY 10) Nomadland by Chloé Zhao

Nomadland by Chloé Zhao, with an extraordinary FrancesMcDormnd holding up the entire feature film - Marina's review.

(from Venice Marina Pavido – Photos are published courtesy of the Biennale)

The McDormand, therefore, you know, who, Fern's clothes, a middle-aged woman who has been widowed for several years, who - following the closure of the factory she worked for - finds herself living inside a caravan in the remote lands of Nevada. To cross his path, una serie di personaggi che come lei hanno optato per una vita senza fissa dimora, ognuno dei quali riesce a trovare dei fattori positivi all’interno di questa insolita esistenza.

Una storia decisamente interessante, questa messa in scena da Chloé Zhao. On this there is no doubt. and yet, dopo una prima parte complessivamente ben gestita, in cui v’è un giusto equilibrio tra interiorità della protagonista, interazioni con l’esterno e necessaria attenzione al paesaggio, here, slowly, l’intero lavoro inizia pericolosamente a girare a vuoto, concentrandosi quasi esclusivamente sul personaggio di Fern e diventando sempre più stanco nel suo andamento narrativo, sempre più prevedibile nei suoi eccessivamente deboli risvolti narrativi.

Molti elementi, in Nomadland, vengono inizialmente tirati in ballo per poi essere lasciati in sospeso senza soluzione alcuna. Un esempio, in tal caso, è la difficoltà di Fern a cambiare una gomma, che tanto prometterebbe in situazioni al limite del pericolo in cui la stessa potrebbe trovarsi, but that, in fact, non ha alcuna rilevanza all’interno della storia stessa.

E se, at the same time, man mano che ci si avvicina al finale si ha l’impressione che la regista fatichi a trovare una conclusione accettabile per questo suo lavoro, ecco che – soprattutto per quanto riguarda l’ultima mezz’ora – di conclusioni ne troviamo, Alas, tante e tante. In ogni singola scena, indeed, abbiamo l’impressione che il lungometraggio stia volgendo al termine. Ma così, Unfortunately, non accade. E se il totale di un’enorme pianura che si perde a vista d’occhiomentre la protagonista, piccola piccola sullo schermo, esce lentamente dal campo dando le spalle alla macchina da presasembrerebbe una chiusura più che azzeccata, ecco che un’ultima, ridondante inquadratura sta a far perdere ulteriormente di mordente l’intero lavoro. Un lavoro che ha visto le sue numerose potenzialità mal sfruttate e che, at the end of games, può puntare soltanto sulla bravura della McDormand e sulla risonanza delle sue case di produzione.

marina fears

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