SPECIALE 68ma #BERLINALE #6 – 15/25 FEBBRAIO 2018: (DAY 3) – EVA di Benôit Jacquot

La Francia e la Huppert allo sbaraglio nel remake dell’omonimo film degli anni ’60 con l’indimenticabile Jeanne Moreau

(da Berlino Luigi Noera con la collaborazione di Marina Pavido – Le foto sono pubblicate per gentile concessione della Berlinale)

Presentato in concorso alla 68° edizione del festival di BerlinoEva è l’ultimo lungometraggio del cineasta francese Benôit Jacquot, con protagonisti la grande Isabelle Huppert e l’attore-rivelazione Gaspard Ulliel.

Intrigante l’incipit che vede un giovane Ulliel, il quale, costretto per ristrettezze economiche a prostituirsi, va a far visita ad un anziano drammaturgo e, in seguito all’improvvisa morte di quest’ultimo all’interno della vasca da bagno, decide di rubargli il manoscritto della sua ultima opera. Conseguentemente a ciò, nel momento in cui, con una forte ellissi temporale vediamo lo stesso giovane autore diventare un affermato commediografo, ci chiediamo quale sarà la pena da scontare per il furto precedentemente commesso. E invece, inaspettatamente, tale episodio finisce per non avere più alcun peso per tutto il resto del lungometraggio, in cui viene messa in scena – con trovate anche piuttosto discutibili e spesso poco credibili – la passione che scoppierà tra il giovane autore ed una donna più matura – interpretata dalla divina Huppert – che, mentre il marito è in carcere, per arrotondare si prostituisce anch’ella.

Come si può facilmente intuire da una sommaria lettura della sinossi, il principale problema di un lungometraggio come Eva è proprio lo script: tanti, troppi gli elementi tirati in ballo e lasciati in sospeso (il sopracitato furto del manoscritto è solo un esempio), così come numerose sono le situazioni decisamente poco credibili (come può il personaggio della Huppert mettere in piedi una tale messa in scena, senza che i numerosi conoscenti del marito – anch’essi residenti nella piccola cittadina in cui la donna lavora – vengano a conoscenza della situazione?). Per il resto, a fare da protagonisti sono una serie di snodi narrativi tanto deboli quanto inutili che vedono in prima linea, di volta in volta, la sfortunata fidanzata del protagonista ed il di lui capo.

Tale tentativo di Jacquot, se osservato con il dovuto distacco, sembrerebbe addirittura volersi rifare – senza riuscirci – a Paul Verhoeven o, addirittura, ad un Roman Polanski minore (giusto per non fare altri nomi come Claude Chabrol e via discorrendo), finendo per mettere in scena non solo qualcosa di trito e ritrito, ma, soprattutto, una brutta copia posticcia e raffazzonata di qualcosa che altri hanno saputo realizzare in modo indiscutibilmente encomiabile.

Ultima considerazione: le numerose ellissi presenti ed il susseguirsi eccessivamente vorticoso degli eventi non ha affatto aiutato la resa finale. Per non parlare degli imbarazzanti primi piani al ralenty che vedono prima la Huppert all’interno di una vasca da bagno e poi lo stesso Ulliel, poco prima dei titoli di coda, lungo le strade di Parigi. Un insuccesso decisamente poco in linea con il programma della Berlinale 2018, ma che, visti i precedenti lavori del cineasta francese (primo fra tutti Tre Cuori, presentato in anteprima alla 71° Mostra del Cinema di Venezia) non è stato neanche del tutto inaspettato.

Marina Pavido

NDR: Ma la stangata alla pellicola la da il finale che lascia il sapore amaro allo spettatore. In qualche modo bisognava finire . . .

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