La defensa del dragon di Natalia Santa – la recensione di Marina Pavido

Presentato in anteprima alla Quinzaine, durante la 70° edizione del Festival di Cannes, La defensa del dragon è l’opera prima della regista colombiana Natalia Santa, prima donna colombiana ad aver preso parte al Festival di Cannes.

Nel gioco degli scacchi la variante del Dragone è una disposizione dei pedoni neri sull’ala del re che ricorda, appunto, La_defensa_del_dragon-3la costellazione del Drago. Con tale disposizione il re è praticamente inattaccabile, chiuso com’è da una così solida difesa. Tale disposizione sembra essere particolarmente apprezzata da Samuel, giocatore di scacchi professionista che si divide tra un torneo ed una lezione, cercando di trovare del tempo anche per la sua figlioletta, nata da un matrimonio ormai finito da tempo. Analogamente al re, l’uomo, in realtà, si è chiuso al mondo esterno, usando gli scacchi come difesa verso tutto ciò che possa attaccarlo. Stessa sorte, a quanto pare, è toccata ai suoi due migliori amici.

Giovane sì. “Inesperta”, se vogliamo, abbastanza, data la sua scarsa esperienza – diretta, almeno – dietro la macchina da presa. Eppure Natalia Santa con questa sua opera prima ha indubbiamente dimostrato una grande maturità registica e stilistica. Analogamente alle vite dei tre personaggi, la macchina da presa evita volutamente inutili virtuosismi, ma, al contrario, predilige inquadrature fisse con una composizione del quadro spesso eccessivamente statica, quasi come se, come avviene per il gioco degli scacchi, appunto, si volesse a tutti i costi rispettare uno schema. Samuel, il protagonista – interpretato dal bravo Gonzalo Sagarminaga, autore anche di gran parte delle musiche – dal canto suo sembra faticare non poco ad abbandonare tale schema, sicuro com’è all’interno di quel mondo apparentemente perfetto – ma in realtà piuttosto frustrante – che si è costruito intorno nel corso degli anni. E la regista, di fronte a tutto ciò, cosa fa? Semplicemente si limita ad osservare ciò che accade, senza voler a tutti i costi far sentire la propria presenza, ma facendo sì, allo stesso tempo, che lo spettatore noti ogni singolo dettaglio di ciò che circonda i personaggi stessi, entrando, così, in contatto con loro fin dai primi minuti.

Un’opera, questa, che, in quanto “piccolina”, rischierebbe ingiustamente di passare quasi inosservata. Eppure c’è da riconoscere che Natalia Santa ci ha regalato un vero e proprio gioiellino, molto personale, sottile e privo di sbavature. Per molti versi addirittura meglio riuscito di alcuni lungometraggi presenti in concorso. Che sia (anche) merito dell’ottima scuola sudamericana che da anni ci regala, spesso e volentieri, piacevoli sorprese? Può darsi. Ad ogni modo, l’attenzione che il Sudamerica dedica ogni anno ai nuovi nomi che si affacciano sulla scena è non solo encomiabile, ma dimostra anche un’apertura ed una voglia di sperimentare all’interno di un campo che senza tali elementi rischia di diventare angusto, stagnante. Praticamente morto. E in Italia, fatte poche eccezioni, purtroppo ne sappiamo qualcosa.

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